Vi
posso assicurare che scrivere di quello di cui leggerete più sotto è
stato difficile quasi come raccontare << [...] una tempesta
sull'isola >>, cioè di una tempesta spaventosa, in un lontano
mare caraibico. Mi ha tolto il sonno.
<<
Ricordo molto bene quel giorno [...] Mio Dio, che meravigliosa
mattina [...] C'era una discussione circa una tempesta sull'isola >>,
di quelle che sballottano << [...] le navi da lato a lato >>
e che inzuppano le ossa di terrore. << Era il 1929 / Ricordo
molto bene quel giorno [...] Mio Dio, c'erano trentatrè anime in
acqua >>, si intona in un canto americano, "Corri, vieni a
vedere Gerusalemme".
Ecco:
ciò che ho composto riguarda anime costrette a perdersi. Ma, anche
se è ovvio che le vicende che andrò a narrare, non quelle
sull'uragano e sui Caraibi bensì quelle che hanno a che fare con
Eugenio Buzánszky, Giulio Grosics e la squadra per cui giocarono,
c'entrino davvero poco con la stessa tempesta che trascinò quelle
navi nell'oceano, potete stare certi che è stato davvero arduo
provarle a narrare.
Nonostante
in entrambe le vicende sopra uomini sia stata usata forza, da parte
della Natura o di altri uomini, per sprofondarli nell'angoscia,
scrivere e cantare della tempesta del '29 e delle trentatrè persone
forzate ad andare, prima del tempo, incontro al loro giudizio è
diverso dallo scrivere di questa squadra di calcio, tra l'altro è
meno difficoltoso, anche perchè la squadra si può considerare nata
nel 1950 ed al Mondiale si va in ventitrè.
La
squadra era, poi, composta da: Giulio Lóránt, prestante terzino
sinistro; il centrale di difesa Michele Lantos; Giuseppe Bozsik,
ritenuto uno dei più forti mediani di sempre; il mediano
tutto-polmoni Giuseppe Zakariás; Basileo Czibor, talentuosissima ala
sinistra; e la scattante ala destra Ladislao Budai. Questi i
titolarissimi.
Eugenio
Buzánszky, l'ultimo superstite di quella formazione sfortunata e
leggendaria, è morto proprio l'11 gennaio di due anni fa, il 2015,
all'età di 89 anni. Certo, è passato del tempo da quel gennaio: nel
frattempo l'Ungheria ha disputato un coraggioso Europeo, di grande
corsa e tante manovre offensive. Ha molto impressionato un ragazzo,
Adamo Nagy, regista intelligente dal moto facile e spigliato, le
gesta del quale stiamo ammirando a Bologna. Poi, Gabriele Király, il
portiere, "quello colla tuta", ha superato il record di
presenze in nazionale dello stesso Bozsik: lo ricordate Bozsik, no?
Il mediano della "Squadra d'oro", cosiderato uno dei più
forti di tutti i tempi. Tuttavia, dato che l'Ungheria calcistica,
dopo 44 anni di astinenza dalle fasi finali delle grandi competizioni
calcistiche europee e mondiali, s'è fatta da molti conoscere per la
prima volta, è sembrato opportuno, in occasione della ricorrenza
della sua dipartita, richiamare alla memoria Eugenio Buzánszky e la
sua favolosa squadra, in modo tale che chi conosca il vertice del
movimento calcistico magiaro, per via di Euro 2016, solamente da poco
tempo, possa meglio approfondire la conoscenza di tale movimento,
attraverso quello che probabilmente è l'evento più importante della
sua storia.
Ad
ogni modo: Eugenio Buzánszky era terzino destro. Non era una stella.
L'ho visto giocare solo una volta, su YouTube, con la sua Ungheria
contro i Leoni d'Inghilterra, nella maggiore chiesa del calcio, il
vecchio Wembley, in un tempo, il 1953, nel quale tornare vittoriosi
dall'altra parte della Manica era praticamente impossibile: i Leoni
inglesi, prima di quella partita, in ottantuno anni, avevano perso
una sola volta in patria. I magiari si presentarono all'invito
degl'inglesi a giocare un'amichevole con al collo una metaforica
medaglia d'oro, quella conquistata l'anno precendente, quando il
mondo si riunì ad Helsinki per giocarsi le Olimpiadi. La Nazionale
maggiore ungherese e quella Olimpica erano pressochè le stesse, dato
che i calciatori magiari, tutti dilettanti, erano passibili di essere
arruolati anche per i Giochi. Quindi, altro che amichevole
Inghilterra-Ungheria. In pratica, da sempre, gli inglesi hanno
sfidato i detentori di titoli, Mondiali od Olimpiadi che siano, con
il fine di "soffiarglieli": un po' come nella boxe, no?
Vale a dire che chi vince contro il campione è il nuovo di campione.
L'avevano fatto pure con noi italiani, nel 1934, aspettandoci al
varco ad Highbury e dandoci battaglia durissima. In ogni caso,
Inghilterra - Ungheria, se la si vuol mettere così, valeva l'oro
olimpico. L'incontro era programmata per il 25 novembre, nel freddo
autunno inglese che tanto rende l'erba viscida: Buzánszky gioca,
tutto sommato, una buona partita. Nonostante sia il difensore che più
spinge, è forse il meno forte del suo reparto, tuttavia è ordinato
ed attento, almeno per quanto potesse essere ordinato ed attento un
difensore dell'immediato secondo dopoguerra: viene saltato una volta,
si addormenta con tutti i compagni di reparto in occasione del primo
goal inglese, su palla alta s'addormenta un'altra volta, ed infine è
complice poco colpevole dell'errore, in uscita, del portiere Grosics.
La partita finisce 6 a 3 per i magiari. Gli ungheresi hanno tirato in
porta trentacinque volte; gli inglesi, che non sono quelli che oggi
volano in continenti lontani per giocare Mondiali nei quali faranno
ridere, hanno tirato solamente cinque volte. È
fatta, dopo tre anni di vittorie, l'Ungheria è la nuova superpotenza
del calcio mondiale. In una partita da leggenda, sono battuti gli
inventori del football, e pure in terra d'Albione. << Non erano
passati 45'', ed il pallone già s'insaccava nella porta inglese,
imparabile. I nervi si spezzarono come vetro.
Ma
l'eco che rimbombò nello stadio fu cupa e lunga: il primo pezzo
dell'invincibile, ormai secolare mito del calcio inglese era
crollato. [...] ho sentito, forse contagiato dall'intuizione
collettiva di centomila cervelli, che la storia del calcio era ormai
giunta ad una svolta. [...]
Non
servirà più calcolare quanto sia largo, nel punteggio e nella
classe, lo scarto che separa le due squadre, tener conto dei goals
degli uni e degli altri: i dadi sono tratti. La battaglia ha ormai un
vincitore indiscutibile >> scrisse Luca Trevisani, per l'Unità.
I magiari giocano ad un'altra velocità, di gambe e di pensiero;
possente il ritmo. Insomma: è l'apoteosi di quella rivoluzione
calcistica tutta offensiva che anticipa ed ispira il 4-2-4 brasiliano
di Svezia '58 e Cile '62.
Ed
in un contesto calcistico nel quale si marcava ad uomo, questa
rivoluzione ungherese consisteva più tecnicamente nel far
indietreggiare i tre attaccanti a centrocampo, risucchiando i tre
difensori avversari in una zona che non competeva loro, e nel far
avanzare le due mezze ali, che costringevano i mediani rivali, che li
sorvegliavano, ad indietreggiare in difesa. Gli avversari, marcando i
"mitici magiari", li inseguivano per il campo disorientati.
E, come dicevo, il protagonista assoluto di questa rivoluzione fu
Ferdinando Hidegkuti, centravanti di manovra: sì, perchè
teoricamente partiva al centro dell'attacco, ma arretrava a
centrocampo e si portava dietro il centrale di difesa avversario.
Nello spazio creato si inserivano quelle che in teoria erano le
mezz'ali, Kocsis ed il colonnello Puskás,
questo era il grado che, senza mai toccare un'arma, si guadagnò in
un'Ungheria dove calcio e politica erano particolarmente
commistionati.
L'Ungheria
accende e spegne il gioco quando ritiene sia opportuno farlo, a suo
piacimento. A momenti di compassato palleggio si avvicendano lampi
acuti, che si traducono in attacchi massicci ed impetuosi. Innocuo
palleggio ed improvvise accelerate sono alternati, come le stagioni
si alternano da quando Plutone si mise d'accordo con Cerere sulla
libertà di Proserpina, rapita sul lago di Pergusa: nel periodo del
gioco in cui l'Ungheria accelera, cade l'inverno sopra gli avversari.
È un modulo, quello magiaro, creato con lucidità, dall'allenatore
Sebes, con il fine di sovrastare il sistema, cioè quel module
principe in Inghilterra da trent'anni (vale a dire 3-2-2-3: tre
difensori, due mediani, due mezz'ali, tre attaccanti) e principe dei
moduli, in Europa, da una decina. L'Ungheria fa un passo in avanti e
rivoluziona il pallone in modo indimenticabile, resta scolpito nel
cervello di tutti. E
meno male per gli avversari che Ladislao Kubala, centrocampista dalla
classe infinita, dicono tra le migliori di tutti i tempi, non possa
giocare tra le fila ungheresi, vista la squalifica inflittagli a
seguito della sua fuga dal paese, in cerca di diverse libertà.
Poi,
archiviato il 6 a 3 agli inglesi, c'è il Mondiale, il luogo nel
quale, dopo aver vinto l'oro alle Olimpiadi, consacrarsi
definitivamente. Passato il girone eliminatorio, l'Aranycsapat, la
mitica Ungheria, fa fuori, in una partita violentissima (testimonia
Vittorio Pozzo, inviato da La Stampa) il fortissimo Brasile e
successivamente elimina i campioni in carica dell'Uruguay. Nel primo
incontro, quello giocato contro i brasiliani, tre in totale furono
gli espulsi: uno per i magiari, vale a dire Bozsik, primo deputato di
un Parlamento a venire espulso ad un Mondiale; poi, a fine partita,
con bottiglie rotte sulle teste, diventante sanguinanti, di
calciatori e dirigenti continua la guerra combattuta in campo. La
seconda partita, intendo dire la semifinale contro gli uruguagi, è
altro rispetto a questo scritto, nel senso che fa storia a sè, com'è
raccontata da Gianni Brera, perciò non spenderò sopra essa
alcun'altra parola. Così, la finale si gioca sul pesante campo dello
stadio Wankdorf di Berna, davanti a 60.000 spettatori: è Germania
Ovest-Ungheria. Le due formazioni partono a spron battuto: dopo 20
minuti, si è sul 2-2. Tanta la mole di gioco prodotta durante la
partita dai magiari, tante le occasioni costruite. Ma, a pochi minuti
dalla fine, segna la Germania. Gli ultimi istanti sono, per gli
ungheresi, di agonia, nel tentativo disperato di trovare il pareggio.
La Squadra d'oro non entra nell'Olimpo del calcio. Si parlò di
tedeschi dopati (cinque di loro, il giorno seguente, finirono in
ospedale per un'itterizia infettiva), di arbitraggio a sfavore dei
magiari, di vittoria della capitalista Germania Ovest sulla comunista
Ungheria, di vittoria fondamentale per i tedeschi in un durissimo
secondo dopoguerra. La Squadra d'oro, questa squadra che gioca un
calcio-così-bello-che-non-si-è-mai-visto, entra però
nell'immaginario di tutti. La favola vera e propria, tuttavia,
finisce proprio quel giorno. Poi, nel '56, con la Rivoluzione
Ungherese, la mazzata decisiva: molti calciatori della nazionale, nei
giorni della lotta del popolo magiaro contro i comunisti di Russia ed
Ungheria, sono a giocare delle partite all'estero. Decidono di non
tornare. Fuggono. Se Hunor e Magor, i padri degli unni e dei magiari,
inseguendo un cervo bianco, iniziarono quella storia di emigrazione
dei loro popoli verso l'attuale Ungheria, alcuni calciatori
dell'Aranycsapat si spinsero oltre, fino ini Spagna: Puskás
giocherà a Madrid, Kocsis e Czibor al Barcellona. La squadra si
spacca, o meglio, cessa di esistere.
Prima
di accasarsi in Spagna, i nostri trovarono temporaneo rifugio in
Italia, vista la vicinanza geografica e spirituale che lega questa
coll'Ungheria. Tra le stesse scorre, come sostiene La settimana Incom
del 13 dicembre '56, << [...] quell'amicizia che nell'ore dure
sa temprarsi alla fiamma del dolore >>.
Ora,
Giulio Grosics, il portiere, ha << sempre fatto il tifo per il
Ferencvaros. Anche da bambino. Prima ancora di sapere che fosse la
squadra della destra nazionalista >> scrive Angelo Carotenuto,
che racconta la vita del calciatore nel suo blog, "Il
Puliciclone", curato per La Repubblica. Giulio è un noto
anti-comunista: da giovane, negli anni tra le due guerre,
nell'Ungheria governata dall'ammiraglio Horthy, quella dei privilegi
della vecchia e ricca aristocrazia e delle leggi che discriminano gli
ebrei, insomma: di un muro di disuguaglianze alzate tra le persone, è
membro di un'organizzazione paramilitare voluta dal Governo, Levente.
Alla minoranza ebraica, che deteneva un quarto della ricchezza
nazionale, venne limitato, attraverso il diritto, l'accesso
all'università ed a determinate professioni intellettuali. In
430.000 furono gli ebrei che, sotto il governo Horthy-Kállay ed in
forza di pressioni naziste, furono uccisi. Infatti, dopo il primo
conflitto mondiale, italiani ed ungheresi, nel mezzo delle rovine,
vissero le medesime emozioni, le stesse paure: le menti di molti
furono attanagliate dal terrore per un futuro che si prospettava da
miseria, da quel bisogno di sicurezza, e quindi di una vita meno
affannosa, che è stato cavalcato da certe guide con il fine di
eliminare e svilire determinate persone, racchiuse in categorie.
Comunisti, zingari, ebrei ed omosessuali, considerati i nemici della
patria, furono posti in uno stato di minorità, vale a dire in uno
stato che permettesse al cosiddetto normale uomo magiaro ed italiano
di poterli discriminare ed eliminare senza provare alcun rimorso. A
detta di queste guide, infatti, era a causa degli esseri umani di cui
sopra che il futuro era incerto, cosicchè gli ungheresi e gli
italiani persuasi di quest'idea, spaventati dalla mancanza di
sicurezza, dalla povertà, non ci misero niente a mobilitarsi con il
fine di usare violenza sopra queste persone. Nessun sentimento di
colpa. Pare che nell'essere umano, quando si trova affamato e
spaventato, scatti un moto che lo porta ad uccidere, senza porsi
problemi di coscienza, coloro che hanno generato questo stato di
affanni e di difficoltà, od i presunti genitori di tale stato di
cose; e questi immaginari rei di aver creato stenti e fame capita
spesso li indichino certe guide. Ecco: sembra che il portiere
dell''Aranycsapat Giulio Grosics, che, come avete ben presente,
faceva parte di Levente, vale a dire la milizia che abusava della sua
forza a discapito di determinate minoranze, sia stato uno di quelli
terrorizzati: pare che la sua mente partorì l'idea che certi soprusi
e certi delitti sono giustificabili. E sembra anche che il mondo
nuovo sia uguale a quello vecchio, perchè delle guide di cui ho
fatto cenno ne nascono sempre, Orbán come Horthy, quando le crisi
economiche ci affamano ed il mondo comincia a tremare di paura.
Giulio Grosics, del resto, era colui che, per lunghi periodi della
sua vita, vale a dire molti di quelli vissuti con il pallone sulla
bagnata e pesante erba, accarezzato e trattato a piacimento dagli
undici "mitici magiari", viveva con grande coraggio,
essendo stato uno dei primi portieri a difendere la propria porta
uscendo dall'area di rigore, ma era anche colui che, in alcuni
momenti, veniva bloccato dallo sgomento: << A nove minuti dalla
fine >> di quel leggendario 3 a 6 rifilato agli inglesi <<
mi crebbe una palla in gola, spuntò all'improvviso, io la sentii
gonfiarsi e mangiarmi il fiato. Si piantò al centro del petto, alla
bocca dello stomaco, spingeva contro il mediastino, stavo per
impazzire. Chiesi all'arbitro di uscire dal campo, volevo solo
tornarmene al più presto in panchina. Era un attacco di panico.
Uguale a quelli che di tanto in tanto mi prendevano in allenamento,
quando ero convinto che una grave malattia stesse aggredendo il mio
cervello: per questo portavo un berretto rosso, mi faceva bene, ne
ero certo, ne ero certissimo >>, scrive Angelo Carotenuto,
immedesimandosi, sulla base di un fatto vero, nel nostro.
Ad
ogni modo, nell'angosciosa situazione di cui parlavo sopra, cioè la
situazione che si venne a creare dopo la Grande Guerra, con fermenti
nazionalistici ad imperversare tra la gente, Italia ed Ungheria
arrivarono a trovarsi dopo aver combattuto nel medesimo conflitto,
l'Italia da nazione indipendente, l'Ungheria sotto la bandiera
dell'impero austriaco: successe infatti che l'Italia, che già dagli
stessi austriaci s'era liberata, nel mentre che viveva anni miseri,
scivolò piano piano in una povera guerra, la Prima Guerra Mondiale,
trovandosi a combattere anche i magiari poveretti, bramanti da tempo
quell'indipendenza ottenuta, dopo Vittorio Veneto, per mezzo di una
rivoluzione. Ed in quel tempo di bramosia d'indipendenza: italiani ed
ungheresi combatterono a fianco, i secondi in aiuto dei primi,
guidati dall'ufficiale della Honvèd, la fanteria magiara, Luigi
Tüköry, morto combattente nella mia città, Palermo, al civico 49
di via del bosco, nel quale, commemora una targa, << A la pietà
e a la storia [...] Tomaso Oneto di S. Lorenzo questo suo palagio
consacrò fraternamente accogliendo i feriti ne l'epica pugna. È qui
de la schiera de' mille moriron fra gli altri Luigi Tüköry [...]
>>, per via di un ginocchio spappolatogli da un colpo di
fucile, presso porta Termini. Ed in quel tempo di bramosia
d'indipendenza magiara: e verso la fine di quel tempo, nel 1910,
Ungheria ed Italia ribadirono la loro fratellanza, scontrandosi a
Milano in un'amichevole tra le rispettive compagini calcistiche, di
<< [...] questo nobile e battagliero sport atletico >>,
vinta dai magiari con goal del fortissimo Emerico Schlosser, per via
di << Un nostro calciatore >> che << riprende alla
partita, sdrucciola >>, per via del fatto che aveva nevicato,
<< cade e tocca malauguratamente il pallone colla mano: ciò
avviene a meno di un metro dalla linea di rigore e l'arbitro concede
un calcio di punzione. Il tiro ungherese è preciso e la palla entra
in porta [...] >>, ciononostante l'Italia abbia giocato una
signora partita, a dispetto della strapotenza calcistica
dell'avversario, corazzata del calcio dei pionieri, ricorda un
giornalista de La Stampa del quale non sono riuscito a reperire il
nome; del resto, l'autorevole Ungheria del calcio avanguardista
arrivò alla finale mondiale del '38, contesa agli stessi azzurri, e
secondo alcuni avrebbe potuto vincere i Mondiali del '42, del '46 e
del '50, se a quelli brasiliani avesse partecipato. Così, dopo che
gli ungheresi soccorsero gli italiani nella lotta per l'indipendenza
dei secondi, e dopo che i magiari stessi la ottennero per indiretto
intervento italiano, le guide della nazione generatisi, voglio dire
quelle generatisi due anni dopo la fine della Grande Guerra, con a
capo l'ammiraglio Horthy, amico di Mussolini, degli italiani, e
vincitore sui comunisti l'anno prima, imposero tra l'altro, in un
clima come quello sopra descritto, la "magiarizzazione"
degli ebrei, cioè questi furono pressati affinchè abbracciassero
ancor più la cultura ungherese; così come lo furono tutti gli altri
popoli, in particolare danubiani, che trovarono culla in Ungheria:
intendo dire gli slovacchi, i romeni, gli svevi, i cechi, i serbi, i
tedeschi ed i croati. I nostri Kocsis ed Hidegkuti portarono nomi
magiari proprio perchè i padri, di origine tedesca, dovettero
cambiare cognome. Lo stesso Puskás aveva origini teutoniche. Nella
Seconda Guerra Mondiale, poi, il portiere, Giulio Grosics combatte,
contro i comunisti, in seguito vincitori, volontario nelle SS. Casa
sua diventa un arsenale per i ribelli del 1956. I servizi segreti
sovietici lo hanno sorvegliato, sostenne lui, da dopo il Mondiale; da
quel momento, ogni settimana veniva prelevato da una macchina nera
del governo rosso e puntualmente interrogato. Sì, la rovina in
finale contro i tedeschi ha causato baraonda in Ungheria: << A
Budapest la gente quel giorno era in strada per festeggiare, l'attesa
si trasformò in protesta. La [...] sconfitta c'entrava e non
c'entrava, la folla cominciò a prendersela con il governo. Il
Partito >> Comunista << reagì malissimo >>, scrive
sempre Carotenuto. Fu a partire da quel momento che, sostenne Giulio
Grosics, lo stesso Giulio fu tenuto d'occhio dal governo.
Il
23 ottobre del 1956, infatti, sull'onda degli scioperi degli operai
polacchi, finiti con attacchi alle sedi del Partito Comunista,
300.000 ungheresi scendono in piazza a Budapest: protestano perchè
mancano i beni di consumo, non c'è nè libertà d'espressione nè di
stampa, tutto è in mano all'unico partito. Tra le altre cose, anche
un club calcistico, vale a dire il Kispest, rappresentante l'ononimo
quartiere di Budapest, era diventato cosa pubblica, visto che cadde
sotto l'amministrazione di quelli della Difesa. Infatti, il club
cambiò il suo nome in "Honvéd", come la fanteria di Luigi
Tüköry, ed in esso confluirono, quasi con decreto, praticamente
tutti i campioni ungheresi, diventati ufficiali dell'esercito. Mentre
il popolo magiaro chiede a gran voce che all'Ungheria << [...]
vengano restituite la dignità di nazione e l'indipendenza >>
(così rende conto La settimana Incom del 9 novembre), la Honvèd,
intendo la squadra di calcio, si trova all'estero per una tournèe:
un paio di giorni prima della Rivoluzione, s'era imposta per due reti
ad una sui concittadini del Vasas, ed apprestandosi a vincere il
campionato, partì per preparare l'incontro valevole per il primo
turno di Coppa Campioni, con avversario l'Athletic Bilbao, ironia, la
squadra della sinistra basca: così è possibile, per i suoi
calciatori, la rotta verso luoghi nei quali siano riconosciute più
libertà, o, come nel caso della Spagna franchista, località dove vi
siano, quantomeno e diversamente dalla comunista Ungheria, più beni
di consumo. Tant'è che, a loro volta, una ventina d'anni prima, vari
calciatori, tra cui Isidoro Lángara, ariete del Real Oviedo, dalla
Spagna del generale Franco erano scappati: evidentemente non bastava
loro più ricchezza in cambio di certe libertà. Del resto, in un
regime comunista, il luogo nel quale il lavoratore sfruttato si
emancipa, non c'è bisogno di chissà quale produzione di beni di
consumo: il lavoratore non avrà bisogno di tutti questi beni:
l'economia non può reggere all'infinito sul loro eccesivo consumo,
al contrario di come la pensano i padroni delle fabbriche, che sul
vendere infinite quantità di oggetti e di alimenti, lavorati non
dagli stessi ricchi padroni ma dai contadini e dagli operai, fanno la
loro ricchezza e, di riflesso, la povertà altrui. Poi, in un regime
comunista, non c'è bisogno della libertà di espressione e di
stampa: quale dissenso avrebbero da esprimere i lavoratori se,
appropriandosi veramente del frutto delle loro fatiche, vivranno
felici e padroni di loro stessi? E poi, la libertà di stampa e di
espressione la userebbero i borghesi, i ricchi, cioè gli unici che
hanno i soldi per possedere un giornale, che da sempre, negli stessi,
storpiano la verità a loro vantaggio; non ci metterebbero niente a
rovesciare il comunismo, che fa giustizia sostanziale, così come
hanno rovesciato gli aristocratici nella Rivoluzione Francese del
1789: "Ma come? Loro lo hanno fatto e se lo facciamo noi
passiamo come degli incivili e sanguinari"? Infine, per i
comunisti, il partito unico era un mezzo temporaneo: dicevano che,
una volta che tutti gli uomini sarebbero stati veramente uguali, cioè
uguali nel guadagnare quanto vale il loro lavoro, senza che un
padrone li sfruttase e li derubasse, il partito unico, che serve ad
opprimere i borghesi, non sarebbe più servito, poichè, a quel
punto, non sarebbero più esistiti gli stessi borghesi, vale a dire
uomini che ne impoveriscono e sviliscono di altri, voglio dire quelli
a cui danno il salario.
Intanto
che in Ungheria infuriavano i combattimenti, la Honvèd di Czibor,
Puskás, Lóránt, Budai e commilitoni, si trova ad errare tra il
vecchio ed il nuovo continente: tutti ambiscono a giocare contro
alcuni dei "mitici magiari". Così, l'allenatore della
squadra del Ministero della Difesa, Bianco Guttmann, organizza
amichevoli a non finire: i malinconici nomadi ungheresi, in questo
modo, riescono a sostentarsi: a migliaia, infatti, tra Austria,
Italia, Portogallo, Brasile, Spagna e Belgio, affollano gli stadi per
vederli giocare. In Brasile, mister Guttmann smetterà di
vagabondare, andando ad allenare il San Paolo; in Spagna i nostri
perderanno, allo stadio San Mamete, nell'andata del primo turno di
Coppa Campioni, sconfitti per mano del già citato Athletic Bilbao;
in Belgio, vista l'impossibilità di tornare a casa, è giocato il
ritorno di coppa, in uno stadio, quello intitolato al re Baldovino,
nel quale, tra un nebbione sceso sul campo e l'ala sinistra Czibor
costretta a giocare in porta, la Honvèd è fermata, nonostante
l'affannosa rimonta, sul 3-3. Dopo l'eliminazione, la FIFA,
assecondando la federazione calcistica ungherese, squalifica la
Honvèd: ora, la formazione di Budapest, l'ossatura della fortissima
nazionale, è una squadra illegale: in quel momento, si capisce ancor
di più che peregrinare all'infinito non è possibile. Se non si
sceglie una vita di questo tipo, s'avrà da trattare, in lunghi
giorni piovosi, col tormento e colla pena.
Già
era successo che il 30 ottobre, i sovietici, dopo giorni di
asprissimi combattimenti, si ritirarono da Budapest: è la <<
[...] riscossa ungherese contro un lungo e durissimo servaggio >>,
ricorda sempre, in modo parziale, La settimana Incom. Ma il 4 di
novembre, << [...] le truppe sovietiche >> scatenarono <<
un attacco contro la capitale nell'ovvio tentativo di rovesciare il
legittimo e democratico Governo magiaro >>, comunicò il Primo
Ministro ungherese Emerico Nagy, via radio. << Le nostre truppe
sono in azione. Il Governo è al suo posto. Annuncio questi fatti al
popolo ungherese e all'opinione pubblica del mondo intero >>
continuò Nagy, eroe moderno della Nazione. Finisce così la
Rivoluzione dei figli d'Ungheria: sono cadute le ultime resistenze:
nel sangue, è stroncata la libertà.
Nel
mentre, come già detto detto, finisce pure la Squadra d'oro, la
formazione di mister Sebes e dei suoi soldati Grosics, Buzánszky,
Puskás e compagni, che ha regnato sul mondo con un gioco magnifico,
tanto incantevole quanto il Danubio che attraversa Budapest, città
monumentale di re e popoli oggi più che mai cristiani, affievolita,
ma mai spenta, nella lucente dignità, la stessa degl'immigrati Hunor
e Magor, dall'occupazione di altri imperi. L'Ungheria ha sovrastato
tutti, o quasi, con un modo di giocare straripante nelle occasione da
goal create, ma non ridondante, tanto era corposo, sostanzioso, come
l'odore di carne cucinata nei borghi lontani dal mare. Il calcio da
loro proposto fu, nella sua essenza, semplice: tanti passaggi nel
breve: giocare, come ebbe a dire Puskás, << per il piacere di
farlo [...] >>, cercando << il risultato con naturalezza
>>, impegnandosi << fino allo spasimo, correndo fino
all'ultimo respiro [...] >>. Così è dominato il mondo del
calcio, per quattro anni, fino alla disfatta mondiale.
Sono
stati undici ragazzi "mitici", quegli undici e gli altri
compagni: Giuseppe Tóth, Bianco Kárpáti, Paolo Várhidi, Emerico
Kovács, Francesco Szojka, Francesco Machos, Luigi Csordás, Pietro
Palotás, Michele Tóth, Alessandro Gellér e Géza Gulyás, il nome
del quale è di origine ignota, perciò intraducibile. Tutti nati tra
il '21 ed il '32. Certe vole capita che ci si fermi a pensare come
delle generazioni riescano a fare delle cose così grandi. E quando
ci si ferma a pensar di questo, come si ha modo di cavar fuori quello
che si vuol dire? Le parole infatti non bastano: come si fa, del
resto, a descrivere la fatica? Il lottare ogni singolo secondo, con
il pallone incollato ai piedi, oppure inseguendolo, fino a disfare
del tutto sè stessi? Come si fa a raccontare di battaglie epocali,
quelle combattute su di un campo di erba verde, dove si muovono
uomini e pallone?
A
Francesco, in magiaro "Ferenc", Puskás piaceva molto
mangiare, tanto da aver giocato, dalla nazionale fino al Real,
spesso, con qualche chiletto di troppo; a Madrid, poi, dicono abbia
aperto un negozio di alimentari; morì povero, vivendo in una casa di
cura, grazie ad un vitalizio del governo ungherese. Alessandro
Kocsis, dopo aver smesso di giocare, aprì un ristorante; era
malinconico da un anno quando, già contratta la leucemia e
diagnosticatogli un cancro allo stomaco, si gettò dalla finestra
dell'ospedale, così da non dover combattere ancora.
Sì,
spesso si sente di queste grandi storie e ci si chiede come questi
uomini abbiano fatto, lo so. Avete idea di cosa sia scrivere una
storia più grande di voi? Sì, lo sapete cosa significa. Non te ne
accorgi. Lo scopri quando torni a vivere normalmente: le cose
finiscono e sei contento lo stesso, ma il pensiero torna a quei
giorni passati.
Dicono
che nella vita degli uomini si abbia appena appena il tempo di fare
cose straordinarie. E visto che cose straordinarie le fecero, quel
tempo venne automaticamente meno, gettandoli nel polverone.
Scaraventati lì, non tanto dall'altalenante fortuna, dal terribile
caso che tanto ci affanna, quel caso che, per intenderci, scatena <<
[...] una tempesta sull'isola >> proprio mentre <<
C'erano tre navi che lasciavano la baia >> e che quindi obbliga
<< [...] trentatrè anime in acqua >>, testimoni del loro
giudizio. Ma tirati giù nello sconfortante polverone, per l'appunto,
da quel caso, sì dettato da un governo, quindi imprevedibile, poichè
imprevedibili sono le cose umane, ma stabilito da una precisa scelta,
la quale, in quel preciso momento, ha fermato la confusione di mille
altre possibilità, e che ne ha imposta una, con tutta la sua forza,
decretando al posto d'altri su come si debba vivere. Insomma, questo
è un governo, no? Quello che, in varie misure, decide dell'esistenza
altrui.
Non
poterono più giocare insieme i membri della "Squadra d'oro".
C'è chi dopo allenò, chi fece altri lavori. Coloro che fecero parte
della diaspora poterono tornare in patria solo nel '93. Alcuni
morirono giovani, per malattia. Giulio Lóránt, il prestante terzino
sinistro, è stato fatalmente colto da un infarto mentre allenava in
una gara del campionato greco.
Eugenio
Buzánszky giocò tredici anni nel Dorogi, e, dopo, lo allenò per
altri tredici anni. Oggi, lo stadio di Dorog è a lui intitolato.
Giulio Grosics, il portiere, è invece morto il 13 giugno del 2014:
il penultimo ad andarsene di quegli undici che si giocarono la finale
della Coppa del Mondo.
È
da due anni che si può dire calato l'ultimo sipario su questa
storia.
Di
Carlo Luca
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