Immanuel Kant, nella sua opera "Che cosa significa orientarsi nel pensiero", pubblicata in risposta alla polemica avviata da Jacobi sul panteismo nel 1785, tratta della libertà di pensiero in relazione alla libertà di comunicare:
"Alla libertà di pensiero si contrappone in primo luogo la costrizione sociale. In realtà si è soliti dire che un potere superiore può privarci della libertà di parlare o di scrivere, ma non di pensare. Ma quanto e quanto correttamente penseremmo, se non pensassimo per così dire in comune con altri a cui comunichiamo i nostri pensieri, e che ci comunicano i loro ? Quindi si può ben dire che quel potere esterno che strappa agli uomini la libertà di comunicare pubblicamente i loro pensieri, li priva anche della libertà di pensare, cioè dell'unico tesoro rimastoci in mezzo a tutte le imposizioni sociali, il solo che ancora può consentirci di trovare rimedio ai mali di questa condizione."
Dunque questo passo deve essere contestualizzato nel periodo storico in cui Kant viveva, caratterizzato dal cosìddetto "Dispotismo Illuminato", una forma di governo di carattere assolutistico mitigata da una sorta di paternalismo che concedeva ai sudditi un limitato margine di libertà di pensiero ed espressione, chiedendo in cambio che non fosse messa in minima discussione la monarchia. Ebbene Kant percepisce queste concessioni come precarie, in quanto è consapevole che, qualora i sudditi stessi dovessero trascendere il contesto inoppugnabile entro il quale sono garantite queste libertà, il despota non esiterebbe un momento a revocarle inesorabilmente, privando anche lui stesso della possibilità giuridica e pratica di esercitare la sua attività di filosofo.
Per kant, se non possiamo comunicare ("mettere in comune") i nostri pensieri, sollecitandoli al fecondo dinamismo proprio del dialogo, allora questi rimangono statici e rigidi, senza una vera e ricca articolazione, pertanto oggi possiamo attualizzare questa "costrizione sociale" che impedisce la comunicazione, non concependola solo come una proibizione fisica dell'atto del parlare, bensì come un'esasperazione della comunicazione medesima, intesa nella sua forma svilente di trasmissione di messaggi pubblicitari, e inoltre come una deformazione di quella facoltà fondamentale che ci permette di esprimere i nostri pensieri tramite proposizioni, il linguaggio (la parola). Tralasciando temporaneamente il linguaggio pubblicitario, che costituisce una delle cause della degradazione della parola, la domanda è in che senso questa nuova forma di "costrizione sociale" snaturi la parola stessa.
Aristotele per primo distingue la dialettica dall'analitica, concentrandosi maggiormente sulla definizione della proposizione formale in tutte le sue parti costituenti, pertanto chi meglio di lui ci può appoggiare nell'illustrazione del cambiamento in cui è incorsa la parola all'interno della proposizione, quindi nel tracciare il nuovo ruolo che ha assunto il concetto all'interno della frase.
Il Capitalismo si contraddistingue principalmente perché privilegia la sua propaggine economica, servendosi della cultura e della politica, per esempio, come sovrastrutture per legittimare il suo dominio e il suo controllo totalitario; dunque la parola non fa eccezione, la frase formalmente è l'unione di un soggetto e di un predicato e, secondo Aristotele, si fonda sui principi di non-contraddizione, di identità e del terzo escluso, in più, il sillogismo ne riflette l'articolazione in un ragionamento che connette varie proposizioni formali che si distaccano totalmente dalla materia e che, partendo da premesse certe, pervengono a conclusioni altrettanto certe.
Per Aristotele la proposizione unisce un soggetto e un predicato formali, tuttavia la separazione che opera fra analitica e dialettica non può sussistere, perché indubbiamente, quando noi pensiamo, rappresentiamo nella nostra mente qualcosa di reale e materiale che Aristotele stesso separa dal pensiero formale (la logica) e che certamente instaura delle relazioni con i nostri concetti i quali, tramite le parole, riescono a rappresentare ciò che percepiscono dall'esperienza sensibile. Di conseguenza, il soggetto corrisponde al concetto che successivamente si identifica con le relazioni che i predicati o attributi gli assegnano, mantenendo allo stesso tempo una certa estraneità da questi, in virtù del suo carattere di sostanza che funge da sostrato delle relazioni stesse e che trascende i loro significati specifici. In breve il concetto all'interno di una proposizione è identico rispetto ai suoi predicati e attributi e nel contempo differente, perché trascende il suo significato specifico (valenza denotativa), comprendendo organicamente in sé una moltitudine di significati altri (valenza connotativa). In conclusione il concetto, di norma, dovrebbe essere "universale", quindi comprensivo di più significati, e non "operativo", ovvero funzionale e ridotto univocamente ad una sola valenza imposta dal "Sistema" che così ha stabilito.
Per esempio la frase "la crescita è fondamentale per l'Italia", calata nel contesto in cui di solito viene ascoltata in TV (contesto economico, è spesso abbinata a produttività, occupazione, PIL e ad altri innumerevoli e sterili indici economici), collega al concetto "crescita" il predicato "fondamentale". Se analizziamo il concetto di "crescita", ci accorgiamo che ad esso viene affibbiato un univoco significato di "sviluppo economico", scartando il suo significato transitivo, comprensivo di valori come la crescita culturale, politica, sociale, spirituale, esistenziale ecc.
Non dobbiamo permettere a slogan pubblicitari-politici, come "il lusso è un diritto", "l'uomo è una macchina" o "crescita, lavoro e produttività", di precluderci il nostro diritto ad un modo di pensare, di parlare e comportarsi alternativo, così come dobbiamo ritagliarci uno spazio privato di riflessione, al riparo da pubblicità, TV, computer, videogames ecc., che ci permetta di pensare e articolare concetti universali e di prefiggere fini personali che siano diversi da quelli di un sistema che divulga e instilla, violentemente e in maniera impercettibile, i suoi concetti mutilati e univoci di "crescita", "lavoro", "vita", "famiglia", "felicità", "comportamento", "parola", "pensiero" e così via, e propone inoltre fini come un lavoro stabile, monotono, produttivo e ben retribuito, una famiglia convenzionale devota al consumo, rapporti sociali formali, una vita appartata e in docile conformismo con il diktat dell' ideologia capitalistica. L'astrazione, come componente essenziale del concetto e nel suo doppio valore ideale e storico, è uno dei segreti per mantenere una certa libertà di pensiero, oltre che d'espressione, perché Kant ha ragione quando sostiene che senza la libertà d'espressione, quindi senza la possibilità di comunicare i propri pensieri, noi siamo dei bruti al servizio di un sistema che vuole prostrarci.
"Gli oggetti eterni sono... per loro natura, astratti. Per "astratto" io intendo che quel che un oggetto eterno è in sé -come dire la sua essenza- è comprensibile senza riferimento a qualche esperienza particolare. Essere astratto significa trascendere l'occasione particolare dell'avvenimento presente. Ma trascendere un' occasione presente non significa essere staccato da essa. Al contrario, io tengo per fermo che ogni oggetto eterno ha la sua propria connessione con ogni occasione particolare, connessione che io definisco il suo modo di penetrare in quell'occasione. Lo status metafisico di un oggetto eterno si può quindi definire dicendo che esso rappresenta una possibilità per un'attualità. Ogni occasione attuale si caratterizza secondo il modo in cui dette possibilità si sono attuate in quell'occasione."
La Scienza e il Mondo Moderno, Whitehead
Ugo Giarratano
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