mercoledì 11 gennaio 2017

Eugenio Buzánszky e Giulio Grosics

Vi posso assicurare che scrivere di quello di cui leggerete più sotto è stato difficile quasi come raccontare << [...] una tempesta sull'isola >>, cioè di una tempesta spaventosa, in un lontano mare caraibico. Mi ha tolto il sonno.
<< Ricordo molto bene quel giorno [...] Mio Dio, che meravigliosa mattina [...] C'era una discussione circa una tempesta sull'isola >>, di quelle che sballottano << [...] le navi da lato a lato >> e che inzuppano le ossa di terrore. << Era il 1929 / Ricordo molto bene quel giorno [...] Mio Dio, c'erano trentatrè anime in acqua >>, si intona in un canto americano, "Corri, vieni a vedere Gerusalemme".
Ecco: ciò che ho composto riguarda anime costrette a perdersi. Ma, anche se è ovvio che le vicende che andrò a narrare, non quelle sull'uragano e sui Caraibi bensì quelle che hanno a che fare con Eugenio Buzánszky, Giulio Grosics e la squadra per cui giocarono, c'entrino davvero poco con la stessa tempesta che trascinò quelle navi nell'oceano, potete stare certi che è stato davvero arduo provarle a narrare.
Nonostante in entrambe le vicende sopra uomini sia stata usata forza, da parte della Natura o di altri uomini, per sprofondarli nell'angoscia, scrivere e cantare della tempesta del '29 e delle trentatrè persone forzate ad andare, prima del tempo, incontro al loro giudizio è diverso dallo scrivere di questa squadra di calcio, tra l'altro è meno difficoltoso, anche perchè la squadra si può considerare nata nel 1950 ed al Mondiale si va in ventitrè.

Il già citato Eugenio Buzánszky fu un calciatore ungherese. Terzino destro, fece parte dell'Aranycsapat, la "Squadra d'oro", cioè quella formazione magiara che in quattro anni, dal 1950 al 1954, giocò 33 partite di fila senza mai perderne una e che trovò disfatta alla 34°, la finale del Mondiale di calcio svizzero del '54, inflittagli dalla Germania Ovest. Un "miracolo" la vittoria dei tedeschi. L'Ungheria della prima metà degli anni '50, del resto, era uno squadrone: guidata dal commissario tecnico Gustavo Sebes, produceva una quantità di gioco impressionante, sempre palla a terra. Un calcio "socialista" fu definito quello giocato dalla comunista Repubblica Popolare Ungherese: tanta coesione del gruppo e della squadra, testimoniata dalle fitte serie di passaggi ravvicinati tra compagni. Poi, pochi i lanci lunghi; molti, invece, i cross delle ali per Alessandro Kocsis, la "testa d'oro": << Non c'è mai stato nessuno migliore di lui con la testa >> affermò, tra gli altri, mister Sebes. Addirittura, come sostenne Eduardo Galeano, ne il suo "Splendori e miserie del gioco del calcio", << Dicono che Kocsis sia stato la miglior testa d'Europa dopo Churchill >>. Per Alessandro, "Sándor" in ungherese, 11 goal alla Coppa del Mondo, una valanga: era, però, sicuramente un altro calcio, nel quale l'attenzione si posava più sull'attacco che sulla difesa. Compagni di Eugenio Buzánszky erano, poi, anche Francesco Puskás, stella di primissimo valore della nazionale e di un Real Madrid leggendario, Ferdinando Hidegkuti, primo protagonista di quella rivoluzione tattica, pensata dal mister, che diede man forte all'Ungheria nel vincere praticamente trenta partite di file ed a giocarsi la finale del Mondiale, e Giulio Grosics, il portiere della mitica formazione, l'epopea e la vita sportiva del quale sono raccontati più sotto.

La squadra era, poi, composta da: Giulio Lóránt, prestante terzino sinistro; il centrale di difesa Michele Lantos; Giuseppe Bozsik, ritenuto uno dei più forti mediani di sempre; il mediano tutto-polmoni Giuseppe Zakariás; Basileo Czibor, talentuosissima ala sinistra; e la scattante ala destra Ladislao Budai. Questi i titolarissimi.

Eugenio Buzánszky, l'ultimo superstite di quella formazione sfortunata e leggendaria, è morto proprio l'11 gennaio di due anni fa, il 2015, all'età di 89 anni. Certo, è passato del tempo da quel gennaio: nel frattempo l'Ungheria ha disputato un coraggioso Europeo, di grande corsa e tante manovre offensive. Ha molto impressionato un ragazzo, Adamo Nagy, regista intelligente dal moto facile e spigliato, le gesta del quale stiamo ammirando a Bologna. Poi, Gabriele Király, il portiere, "quello colla tuta", ha superato il record di presenze in nazionale dello stesso Bozsik: lo ricordate Bozsik, no? Il mediano della "Squadra d'oro", cosiderato uno dei più forti di tutti i tempi. Tuttavia, dato che l'Ungheria calcistica, dopo 44 anni di astinenza dalle fasi finali delle grandi competizioni calcistiche europee e mondiali, s'è fatta da molti conoscere per la prima volta, è sembrato opportuno, in occasione della ricorrenza della sua dipartita, richiamare alla memoria Eugenio Buzánszky e la sua favolosa squadra, in modo tale che chi conosca il vertice del movimento calcistico magiaro, per via di Euro 2016, solamente da poco tempo, possa meglio approfondire la conoscenza di tale movimento, attraverso quello che probabilmente è l'evento più importante della sua storia.
Ad ogni modo: Eugenio Buzánszky era terzino destro. Non era una stella. L'ho visto giocare solo una volta, su YouTube, con la sua Ungheria contro i Leoni d'Inghilterra, nella maggiore chiesa del calcio, il vecchio Wembley, in un tempo, il 1953, nel quale tornare vittoriosi dall'altra parte della Manica era praticamente impossibile: i Leoni inglesi, prima di quella partita, in ottantuno anni, avevano perso una sola volta in patria. I magiari si presentarono all'invito degl'inglesi a giocare un'amichevole con al collo una metaforica medaglia d'oro, quella conquistata l'anno precendente, quando il mondo si riunì ad Helsinki per giocarsi le Olimpiadi. La Nazionale maggiore ungherese e quella Olimpica erano pressochè le stesse, dato che i calciatori magiari, tutti dilettanti, erano passibili di essere arruolati anche per i Giochi. Quindi, altro che amichevole Inghilterra-Ungheria. In pratica, da sempre, gli inglesi hanno sfidato i detentori di titoli, Mondiali od Olimpiadi che siano, con il fine di "soffiarglieli": un po' come nella boxe, no? Vale a dire che chi vince contro il campione è il nuovo di campione. L'avevano fatto pure con noi italiani, nel 1934, aspettandoci al varco ad Highbury e dandoci battaglia durissima. In ogni caso, Inghilterra - Ungheria, se la si vuol mettere così, valeva l'oro olimpico. L'incontro era programmata per il 25 novembre, nel freddo autunno inglese che tanto rende l'erba viscida: Buzánszky gioca, tutto sommato, una buona partita. Nonostante sia il difensore che più spinge, è forse il meno forte del suo reparto, tuttavia è ordinato ed attento, almeno per quanto potesse essere ordinato ed attento un difensore dell'immediato secondo dopoguerra: viene saltato una volta, si addormenta con tutti i compagni di reparto in occasione del primo goal inglese, su palla alta s'addormenta un'altra volta, ed infine è complice poco colpevole dell'errore, in uscita, del portiere Grosics. La partita finisce 6 a 3 per i magiari. Gli ungheresi hanno tirato in porta trentacinque volte; gli inglesi, che non sono quelli che oggi volano in continenti lontani per giocare Mondiali nei quali faranno ridere, hanno tirato solamente cinque volte. È fatta, dopo tre anni di vittorie, l'Ungheria è la nuova superpotenza del calcio mondiale. In una partita da leggenda, sono battuti gli inventori del football, e pure in terra d'Albione. << Non erano passati 45'', ed il pallone già s'insaccava nella porta inglese, imparabile. I nervi si spezzarono come vetro.
Ma l'eco che rimbombò nello stadio fu cupa e lunga: il primo pezzo dell'invincibile, ormai secolare mito del calcio inglese era crollato. [...] ho sentito, forse contagiato dall'intuizione collettiva di centomila cervelli, che la storia del calcio era ormai giunta ad una svolta. [...]
Non servirà più calcolare quanto sia largo, nel punteggio e nella classe, lo scarto che separa le due squadre, tener conto dei goals degli uni e degli altri: i dadi sono tratti. La battaglia ha ormai un vincitore indiscutibile >> scrisse Luca Trevisani, per l'Unità. I magiari giocano ad un'altra velocità, di gambe e di pensiero; possente il ritmo. Insomma: è l'apoteosi di quella rivoluzione calcistica tutta offensiva che anticipa ed ispira il 4-2-4 brasiliano di Svezia '58 e Cile '62.
Ed in un contesto calcistico nel quale si marcava ad uomo, questa rivoluzione ungherese consisteva più tecnicamente nel far indietreggiare i tre attaccanti a centrocampo, risucchiando i tre difensori avversari in una zona che non competeva loro, e nel far avanzare le due mezze ali, che costringevano i mediani rivali, che li sorvegliavano, ad indietreggiare in difesa. Gli avversari, marcando i "mitici magiari", li inseguivano per il campo disorientati. E, come dicevo, il protagonista assoluto di questa rivoluzione fu Ferdinando Hidegkuti, centravanti di manovra: sì, perchè teoricamente partiva al centro dell'attacco, ma arretrava a centrocampo e si portava dietro il centrale di difesa avversario. Nello spazio creato si inserivano quelle che in teoria erano le mezz'ali, Kocsis ed il colonnello Puskás, questo era il grado che, senza mai toccare un'arma, si guadagnò in un'Ungheria dove calcio e politica erano particolarmente commistionati.
L'Ungheria accende e spegne il gioco quando ritiene sia opportuno farlo, a suo piacimento. A momenti di compassato palleggio si avvicendano lampi acuti, che si traducono in attacchi massicci ed impetuosi. Innocuo palleggio ed improvvise accelerate sono alternati, come le stagioni si alternano da quando Plutone si mise d'accordo con Cerere sulla libertà di Proserpina, rapita sul lago di Pergusa: nel periodo del gioco in cui l'Ungheria accelera, cade l'inverno sopra gli avversari. È un modulo, quello magiaro, creato con lucidità, dall'allenatore Sebes, con il fine di sovrastare il sistema, cioè quel module principe in Inghilterra da trent'anni (vale a dire 3-2-2-3: tre difensori, due mediani, due mezz'ali, tre attaccanti) e principe dei moduli, in Europa, da una decina. L'Ungheria fa un passo in avanti e rivoluziona il pallone in modo indimenticabile, resta scolpito nel cervello di tutti. E meno male per gli avversari che Ladislao Kubala, centrocampista dalla classe infinita, dicono tra le migliori di tutti i tempi, non possa giocare tra le fila ungheresi, vista la squalifica inflittagli a seguito della sua fuga dal paese, in cerca di diverse libertà.

Poi, archiviato il 6 a 3 agli inglesi, c'è il Mondiale, il luogo nel quale, dopo aver vinto l'oro alle Olimpiadi, consacrarsi definitivamente. Passato il girone eliminatorio, l'Aranycsapat, la mitica Ungheria, fa fuori, in una partita violentissima (testimonia Vittorio Pozzo, inviato da La Stampa) il fortissimo Brasile e successivamente elimina i campioni in carica dell'Uruguay. Nel primo incontro, quello giocato contro i brasiliani, tre in totale furono gli espulsi: uno per i magiari, vale a dire Bozsik, primo deputato di un Parlamento a venire espulso ad un Mondiale; poi, a fine partita, con bottiglie rotte sulle teste, diventante sanguinanti, di calciatori e dirigenti continua la guerra combattuta in campo. La seconda partita, intendo dire la semifinale contro gli uruguagi, è altro rispetto a questo scritto, nel senso che fa storia a sè, com'è raccontata da Gianni Brera, perciò non spenderò sopra essa alcun'altra parola. Così, la finale si gioca sul pesante campo dello stadio Wankdorf di Berna, davanti a 60.000 spettatori: è Germania Ovest-Ungheria. Le due formazioni partono a spron battuto: dopo 20 minuti, si è sul 2-2. Tanta la mole di gioco prodotta durante la partita dai magiari, tante le occasioni costruite. Ma, a pochi minuti dalla fine, segna la Germania. Gli ultimi istanti sono, per gli ungheresi, di agonia, nel tentativo disperato di trovare il pareggio. La Squadra d'oro non entra nell'Olimpo del calcio. Si parlò di tedeschi dopati (cinque di loro, il giorno seguente, finirono in ospedale per un'itterizia infettiva), di arbitraggio a sfavore dei magiari, di vittoria della capitalista Germania Ovest sulla comunista Ungheria, di vittoria fondamentale per i tedeschi in un durissimo secondo dopoguerra. La Squadra d'oro, questa squadra che gioca un calcio-così-bello-che-non-si-è-mai-visto, entra però nell'immaginario di tutti. La favola vera e propria, tuttavia, finisce proprio quel giorno. Poi, nel '56, con la Rivoluzione Ungherese, la mazzata decisiva: molti calciatori della nazionale, nei giorni della lotta del popolo magiaro contro i comunisti di Russia ed Ungheria, sono a giocare delle partite all'estero. Decidono di non tornare. Fuggono. Se Hunor e Magor, i padri degli unni e dei magiari, inseguendo un cervo bianco, iniziarono quella storia di emigrazione dei loro popoli verso l'attuale Ungheria, alcuni calciatori dell'Aranycsapat si spinsero oltre, fino ini Spagna: Puskás giocherà a Madrid, Kocsis e Czibor al Barcellona. La squadra si spacca, o meglio, cessa di esistere.
Prima di accasarsi in Spagna, i nostri trovarono temporaneo rifugio in Italia, vista la vicinanza geografica e spirituale che lega questa coll'Ungheria. Tra le stesse scorre, come sostiene La settimana Incom del 13 dicembre '56, << [...] quell'amicizia che nell'ore dure sa temprarsi alla fiamma del dolore >>.

Ora, Giulio Grosics, il portiere, ha << sempre fatto il tifo per il Ferencvaros. Anche da bambino. Prima ancora di sapere che fosse la squadra della destra nazionalista >> scrive Angelo Carotenuto, che racconta la vita del calciatore nel suo blog, "Il Puliciclone", curato per La Repubblica. Giulio è un noto anti-comunista: da giovane, negli anni tra le due guerre, nell'Ungheria governata dall'ammiraglio Horthy, quella dei privilegi della vecchia e ricca aristocrazia e delle leggi che discriminano gli ebrei, insomma: di un muro di disuguaglianze alzate tra le persone, è membro di un'organizzazione paramilitare voluta dal Governo, Levente. Alla minoranza ebraica, che deteneva un quarto della ricchezza nazionale, venne limitato, attraverso il diritto, l'accesso all'università ed a determinate professioni intellettuali. In 430.000 furono gli ebrei che, sotto il governo Horthy-Kállay ed in forza di pressioni naziste, furono uccisi. Infatti, dopo il primo conflitto mondiale, italiani ed ungheresi, nel mezzo delle rovine, vissero le medesime emozioni, le stesse paure: le menti di molti furono attanagliate dal terrore per un futuro che si prospettava da miseria, da quel bisogno di sicurezza, e quindi di una vita meno affannosa, che è stato cavalcato da certe guide con il fine di eliminare e svilire determinate persone, racchiuse in categorie. Comunisti, zingari, ebrei ed omosessuali, considerati i nemici della patria, furono posti in uno stato di minorità, vale a dire in uno stato che permettesse al cosiddetto normale uomo magiaro ed italiano di poterli discriminare ed eliminare senza provare alcun rimorso. A detta di queste guide, infatti, era a causa degli esseri umani di cui sopra che il futuro era incerto, cosicchè gli ungheresi e gli italiani persuasi di quest'idea, spaventati dalla mancanza di sicurezza, dalla povertà, non ci misero niente a mobilitarsi con il fine di usare violenza sopra queste persone. Nessun sentimento di colpa. Pare che nell'essere umano, quando si trova affamato e spaventato, scatti un moto che lo porta ad uccidere, senza porsi problemi di coscienza, coloro che hanno generato questo stato di affanni e di difficoltà, od i presunti genitori di tale stato di cose; e questi immaginari rei di aver creato stenti e fame capita spesso li indichino certe guide. Ecco: sembra che il portiere dell''Aranycsapat Giulio Grosics, che, come avete ben presente, faceva parte di Levente, vale a dire la milizia che abusava della sua forza a discapito di determinate minoranze, sia stato uno di quelli terrorizzati: pare che la sua mente partorì l'idea che certi soprusi e certi delitti sono giustificabili. E sembra anche che il mondo nuovo sia uguale a quello vecchio, perchè delle guide di cui ho fatto cenno ne nascono sempre, Orbán come Horthy, quando le crisi economiche ci affamano ed il mondo comincia a tremare di paura. Giulio Grosics, del resto, era colui che, per lunghi periodi della sua vita, vale a dire molti di quelli vissuti con il pallone sulla bagnata e pesante erba, accarezzato e trattato a piacimento dagli undici "mitici magiari", viveva con grande coraggio, essendo stato uno dei primi portieri a difendere la propria porta uscendo dall'area di rigore, ma era anche colui che, in alcuni momenti, veniva bloccato dallo sgomento: << A nove minuti dalla fine >> di quel leggendario 3 a 6 rifilato agli inglesi << mi crebbe una palla in gola, spuntò all'improvviso, io la sentii gonfiarsi e mangiarmi il fiato. Si piantò al centro del petto, alla bocca dello stomaco, spingeva contro il mediastino, stavo per impazzire. Chiesi all'arbitro di uscire dal campo, volevo solo tornarmene al più presto in panchina. Era un attacco di panico. Uguale a quelli che di tanto in tanto mi prendevano in allenamento, quando ero convinto che una grave malattia stesse aggredendo il mio cervello: per questo portavo un berretto rosso, mi faceva bene, ne ero certo, ne ero certissimo >>, scrive Angelo Carotenuto, immedesimandosi, sulla base di un fatto vero, nel nostro.
Ad ogni modo, nell'angosciosa situazione di cui parlavo sopra, cioè la situazione che si venne a creare dopo la Grande Guerra, con fermenti nazionalistici ad imperversare tra la gente, Italia ed Ungheria arrivarono a trovarsi dopo aver combattuto nel medesimo conflitto, l'Italia da nazione indipendente, l'Ungheria sotto la bandiera dell'impero austriaco: successe infatti che l'Italia, che già dagli stessi austriaci s'era liberata, nel mentre che viveva anni miseri, scivolò piano piano in una povera guerra, la Prima Guerra Mondiale, trovandosi a combattere anche i magiari poveretti, bramanti da tempo quell'indipendenza ottenuta, dopo Vittorio Veneto, per mezzo di una rivoluzione. Ed in quel tempo di bramosia d'indipendenza: italiani ed ungheresi combatterono a fianco, i secondi in aiuto dei primi, guidati dall'ufficiale della Honvèd, la fanteria magiara, Luigi Tüköry, morto combattente nella mia città, Palermo, al civico 49 di via del bosco, nel quale, commemora una targa, << A la pietà e a la storia [...] Tomaso Oneto di S. Lorenzo questo suo palagio consacrò fraternamente accogliendo i feriti ne l'epica pugna. È qui de la schiera de' mille moriron fra gli altri Luigi Tüköry [...] >>, per via di un ginocchio spappolatogli da un colpo di fucile, presso porta Termini. Ed in quel tempo di bramosia d'indipendenza magiara: e verso la fine di quel tempo, nel 1910, Ungheria ed Italia ribadirono la loro fratellanza, scontrandosi a Milano in un'amichevole tra le rispettive compagini calcistiche, di << [...] questo nobile e battagliero sport atletico >>, vinta dai magiari con goal del fortissimo Emerico Schlosser, per via di << Un nostro calciatore >> che << riprende alla partita, sdrucciola >>, per via del fatto che aveva nevicato, << cade e tocca malauguratamente il pallone colla mano: ciò avviene a meno di un metro dalla linea di rigore e l'arbitro concede un calcio di punzione. Il tiro ungherese è preciso e la palla entra in porta [...] >>, ciononostante l'Italia abbia giocato una signora partita, a dispetto della strapotenza calcistica dell'avversario, corazzata del calcio dei pionieri, ricorda un giornalista de La Stampa del quale non sono riuscito a reperire il nome; del resto, l'autorevole Ungheria del calcio avanguardista arrivò alla finale mondiale del '38, contesa agli stessi azzurri, e secondo alcuni avrebbe potuto vincere i Mondiali del '42, del '46 e del '50, se a quelli brasiliani avesse partecipato. Così, dopo che gli ungheresi soccorsero gli italiani nella lotta per l'indipendenza dei secondi, e dopo che i magiari stessi la ottennero per indiretto intervento italiano, le guide della nazione generatisi, voglio dire quelle generatisi due anni dopo la fine della Grande Guerra, con a capo l'ammiraglio Horthy, amico di Mussolini, degli italiani, e vincitore sui comunisti l'anno prima, imposero tra l'altro, in un clima come quello sopra descritto, la "magiarizzazione" degli ebrei, cioè questi furono pressati affinchè abbracciassero ancor più la cultura ungherese; così come lo furono tutti gli altri popoli, in particolare danubiani, che trovarono culla in Ungheria: intendo dire gli slovacchi, i romeni, gli svevi, i cechi, i serbi, i tedeschi ed i croati. I nostri Kocsis ed Hidegkuti portarono nomi magiari proprio perchè i padri, di origine tedesca, dovettero cambiare cognome. Lo stesso Puskás aveva origini teutoniche. Nella Seconda Guerra Mondiale, poi, il portiere, Giulio Grosics combatte, contro i comunisti, in seguito vincitori, volontario nelle SS. Casa sua diventa un arsenale per i ribelli del 1956. I servizi segreti sovietici lo hanno sorvegliato, sostenne lui, da dopo il Mondiale; da quel momento, ogni settimana veniva prelevato da una macchina nera del governo rosso e puntualmente interrogato. Sì, la rovina in finale contro i tedeschi ha causato baraonda in Ungheria: << A Budapest la gente quel giorno era in strada per festeggiare, l'attesa si trasformò in protesta. La [...] sconfitta c'entrava e non c'entrava, la folla cominciò a prendersela con il governo. Il Partito >> Comunista << reagì malissimo >>, scrive sempre Carotenuto. Fu a partire da quel momento che, sostenne Giulio Grosics, lo stesso Giulio fu tenuto d'occhio dal governo.

Il 23 ottobre del 1956, infatti, sull'onda degli scioperi degli operai polacchi, finiti con attacchi alle sedi del Partito Comunista, 300.000 ungheresi scendono in piazza a Budapest: protestano perchè mancano i beni di consumo, non c'è nè libertà d'espressione nè di stampa, tutto è in mano all'unico partito. Tra le altre cose, anche un club calcistico, vale a dire il Kispest, rappresentante l'ononimo quartiere di Budapest, era diventato cosa pubblica, visto che cadde sotto l'amministrazione di quelli della Difesa. Infatti, il club cambiò il suo nome in "Honvéd", come la fanteria di Luigi Tüköry, ed in esso confluirono, quasi con decreto, praticamente tutti i campioni ungheresi, diventati ufficiali dell'esercito. Mentre il popolo magiaro chiede a gran voce che all'Ungheria << [...] vengano restituite la dignità di nazione e l'indipendenza >> (così rende conto La settimana Incom del 9 novembre), la Honvèd, intendo la squadra di calcio, si trova all'estero per una tournèe: un paio di giorni prima della Rivoluzione, s'era imposta per due reti ad una sui concittadini del Vasas, ed apprestandosi a vincere il campionato, partì per preparare l'incontro valevole per il primo turno di Coppa Campioni, con avversario l'Athletic Bilbao, ironia, la squadra della sinistra basca: così è possibile, per i suoi calciatori, la rotta verso luoghi nei quali siano riconosciute più libertà, o, come nel caso della Spagna franchista, località dove vi siano, quantomeno e diversamente dalla comunista Ungheria, più beni di consumo. Tant'è che, a loro volta, una ventina d'anni prima, vari calciatori, tra cui Isidoro Lángara, ariete del Real Oviedo, dalla Spagna del generale Franco erano scappati: evidentemente non bastava loro più ricchezza in cambio di certe libertà. Del resto, in un regime comunista, il luogo nel quale il lavoratore sfruttato si emancipa, non c'è bisogno di chissà quale produzione di beni di consumo: il lavoratore non avrà bisogno di tutti questi beni: l'economia non può reggere all'infinito sul loro eccesivo consumo, al contrario di come la pensano i padroni delle fabbriche, che sul vendere infinite quantità di oggetti e di alimenti, lavorati non dagli stessi ricchi padroni ma dai contadini e dagli operai, fanno la loro ricchezza e, di riflesso, la povertà altrui. Poi, in un regime comunista, non c'è bisogno della libertà di espressione e di stampa: quale dissenso avrebbero da esprimere i lavoratori se, appropriandosi veramente del frutto delle loro fatiche, vivranno felici e padroni di loro stessi? E poi, la libertà di stampa e di espressione la userebbero i borghesi, i ricchi, cioè gli unici che hanno i soldi per possedere un giornale, che da sempre, negli stessi, storpiano la verità a loro vantaggio; non ci metterebbero niente a rovesciare il comunismo, che fa giustizia sostanziale, così come hanno rovesciato gli aristocratici nella Rivoluzione Francese del 1789: "Ma come? Loro lo hanno fatto e se lo facciamo noi passiamo come degli incivili e sanguinari"? Infine, per i comunisti, il partito unico era un mezzo temporaneo: dicevano che, una volta che tutti gli uomini sarebbero stati veramente uguali, cioè uguali nel guadagnare quanto vale il loro lavoro, senza che un padrone li sfruttase e li derubasse, il partito unico, che serve ad opprimere i borghesi, non sarebbe più servito, poichè, a quel punto, non sarebbero più esistiti gli stessi borghesi, vale a dire uomini che ne impoveriscono e sviliscono di altri, voglio dire quelli a cui danno il salario.
Intanto che in Ungheria infuriavano i combattimenti, la Honvèd di Czibor, Puskás, Lóránt, Budai e commilitoni, si trova ad errare tra il vecchio ed il nuovo continente: tutti ambiscono a giocare contro alcuni dei "mitici magiari". Così, l'allenatore della squadra del Ministero della Difesa, Bianco Guttmann, organizza amichevoli a non finire: i malinconici nomadi ungheresi, in questo modo, riescono a sostentarsi: a migliaia, infatti, tra Austria, Italia, Portogallo, Brasile, Spagna e Belgio, affollano gli stadi per vederli giocare. In Brasile, mister Guttmann smetterà di vagabondare, andando ad allenare il San Paolo; in Spagna i nostri perderanno, allo stadio San Mamete, nell'andata del primo turno di Coppa Campioni, sconfitti per mano del già citato Athletic Bilbao; in Belgio, vista l'impossibilità di tornare a casa, è giocato il ritorno di coppa, in uno stadio, quello intitolato al re Baldovino, nel quale, tra un nebbione sceso sul campo e l'ala sinistra Czibor costretta a giocare in porta, la Honvèd è fermata, nonostante l'affannosa rimonta, sul 3-3. Dopo l'eliminazione, la FIFA, assecondando la federazione calcistica ungherese, squalifica la Honvèd: ora, la formazione di Budapest, l'ossatura della fortissima nazionale, è una squadra illegale: in quel momento, si capisce ancor di più che peregrinare all'infinito non è possibile. Se non si sceglie una vita di questo tipo, s'avrà da trattare, in lunghi giorni piovosi, col tormento e colla pena.
Già era successo che il 30 ottobre, i sovietici, dopo giorni di asprissimi combattimenti, si ritirarono da Budapest: è la << [...] riscossa ungherese contro un lungo e durissimo servaggio >>, ricorda sempre, in modo parziale, La settimana Incom. Ma il 4 di novembre, << [...] le truppe sovietiche >> scatenarono << un attacco contro la capitale nell'ovvio tentativo di rovesciare il legittimo e democratico Governo magiaro >>, comunicò il Primo Ministro ungherese Emerico Nagy, via radio. << Le nostre truppe sono in azione. Il Governo è al suo posto. Annuncio questi fatti al popolo ungherese e all'opinione pubblica del mondo intero >> continuò Nagy, eroe moderno della Nazione. Finisce così la Rivoluzione dei figli d'Ungheria: sono cadute le ultime resistenze: nel sangue, è stroncata la libertà.

Nel mentre, come già detto detto, finisce pure la Squadra d'oro, la formazione di mister Sebes e dei suoi soldati Grosics, Buzánszky, Puskás e compagni, che ha regnato sul mondo con un gioco magnifico, tanto incantevole quanto il Danubio che attraversa Budapest, città monumentale di re e popoli oggi più che mai cristiani, affievolita, ma mai spenta, nella lucente dignità, la stessa degl'immigrati Hunor e Magor, dall'occupazione di altri imperi. L'Ungheria ha sovrastato tutti, o quasi, con un modo di giocare straripante nelle occasione da goal create, ma non ridondante, tanto era corposo, sostanzioso, come l'odore di carne cucinata nei borghi lontani dal mare. Il calcio da loro proposto fu, nella sua essenza, semplice: tanti passaggi nel breve: giocare, come ebbe a dire Puskás, << per il piacere di farlo [...] >>, cercando << il risultato con naturalezza >>, impegnandosi << fino allo spasimo, correndo fino all'ultimo respiro [...] >>. Così è dominato il mondo del calcio, per quattro anni, fino alla disfatta mondiale.
Sono stati undici ragazzi "mitici", quegli undici e gli altri compagni: Giuseppe Tóth, Bianco Kárpáti, Paolo Várhidi, Emerico Kovács, Francesco Szojka, Francesco Machos, Luigi Csordás, Pietro Palotás, Michele Tóth, Alessandro Gellér e Géza Gulyás, il nome del quale è di origine ignota, perciò intraducibile. Tutti nati tra il '21 ed il '32. Certe vole capita che ci si fermi a pensare come delle generazioni riescano a fare delle cose così grandi. E quando ci si ferma a pensar di questo, come si ha modo di cavar fuori quello che si vuol dire? Le parole infatti non bastano: come si fa, del resto, a descrivere la fatica? Il lottare ogni singolo secondo, con il pallone incollato ai piedi, oppure inseguendolo, fino a disfare del tutto sè stessi? Come si fa a raccontare di battaglie epocali, quelle combattute su di un campo di erba verde, dove si muovono uomini e pallone?
A Francesco, in magiaro "Ferenc", Puskás piaceva molto mangiare, tanto da aver giocato, dalla nazionale fino al Real, spesso, con qualche chiletto di troppo; a Madrid, poi, dicono abbia aperto un negozio di alimentari; morì povero, vivendo in una casa di cura, grazie ad un vitalizio del governo ungherese. Alessandro Kocsis, dopo aver smesso di giocare, aprì un ristorante; era malinconico da un anno quando, già contratta la leucemia e diagnosticatogli un cancro allo stomaco, si gettò dalla finestra dell'ospedale, così da non dover combattere ancora.
Sì, spesso si sente di queste grandi storie e ci si chiede come questi uomini abbiano fatto, lo so. Avete idea di cosa sia scrivere una storia più grande di voi? Sì, lo sapete cosa significa. Non te ne accorgi. Lo scopri quando torni a vivere normalmente: le cose finiscono e sei contento lo stesso, ma il pensiero torna a quei giorni passati.
Dicono che nella vita degli uomini si abbia appena appena il tempo di fare cose straordinarie. E visto che cose straordinarie le fecero, quel tempo venne automaticamente meno, gettandoli nel polverone. Scaraventati lì, non tanto dall'altalenante fortuna, dal terribile caso che tanto ci affanna, quel caso che, per intenderci, scatena << [...] una tempesta sull'isola >> proprio mentre << C'erano tre navi che lasciavano la baia >> e che quindi obbliga << [...] trentatrè anime in acqua >>, testimoni del loro giudizio. Ma tirati giù nello sconfortante polverone, per l'appunto, da quel caso, sì dettato da un governo, quindi imprevedibile, poichè imprevedibili sono le cose umane, ma stabilito da una precisa scelta, la quale, in quel preciso momento, ha fermato la confusione di mille altre possibilità, e che ne ha imposta una, con tutta la sua forza, decretando al posto d'altri su come si debba vivere. Insomma, questo è un governo, no? Quello che, in varie misure, decide dell'esistenza altrui.

Non poterono più giocare insieme i membri della "Squadra d'oro". C'è chi dopo allenò, chi fece altri lavori. Coloro che fecero parte della diaspora poterono tornare in patria solo nel '93. Alcuni morirono giovani, per malattia. Giulio Lóránt, il prestante terzino sinistro, è stato fatalmente colto da un infarto mentre allenava in una gara del campionato greco.

Eugenio Buzánszky giocò tredici anni nel Dorogi, e, dopo, lo allenò per altri tredici anni. Oggi, lo stadio di Dorog è a lui intitolato. Giulio Grosics, il portiere, è invece morto il 13 giugno del 2014: il penultimo ad andarsene di quegli undici che si giocarono la finale della Coppa del Mondo.

È da due anni che si può dire calato l'ultimo sipario su questa storia.










Di Carlo Luca

Translate