sabato 27 dicembre 2014



Cosa mangiamo a tavola ? Dal cibo dei supermercati risalendo sino alle tecniche di produzione agricola della "Green Revolution".



Norman Borlaug: il padre maledetto della "Green Revolution" ("Rivoluzione verde").
La "rivoluzione verde" è la denominazione sotto cui è passato alla storia quel nuovo paradigma di produzione agricola che è stato teorizzato dall'agronomo americano Norman Borlaug, insignito per la sua opera del premio Nobel nel 1970.
La fonte di riferimento per capire in cosa consista questa rivoluzione è il discorso pronunciato da Borlaug stesso nel 2000 in commemorazione della cerimonia del 70.

Possiamo dire subito senza esitazione che la "rivoluzione verde" non ha un piffero di "verde", cioè non rispetta per niente l'ambiente naturale nè nelle sue teorizzazioni nè nelle sue pratiche fondamentali (come invece la denominazione capziosamente vorrebbe far credere). Il modello di coltivazione agricola che ha affermato, infatti, prevede l'applicazione di tutta una serie di scoperte scientifiche, avvenute nell'800 (di cui si parlerà), all'utilizzo agricolo del terreno. In sostanza la rivoluzione verde ha sancito l'industrializzazione dell'ambito produttivo-distributivo agricolo, automatizzandolo e sottoponendolo a piani scientifici di programmazione. Sotto il profilo teorico l'agricoltura diventa una scienza (non a caso ancora oggi all'università si insegnano le "scienze agrarie", tra cui l'agronomia di cui Borlaug è stato un infausto pioniere), inoltre smette di essere una pratica di tipo familiare ed eminentemente empirica, per dare spazio ad una gestione industriale, multinazionale e burocratica, più attenta alla produttività, all'efficienza e all'esportazione, dunque in ultima analisi al profitto illimitato.

E' fondamentale avere le idee chiare sull'essenza della rivoluzione verde, perchè ciò che noi mangiamo oggi (ciò che compriamo nei supermercati) è coltivato secondo i criteri "verdi" della rivoluzione di Borlaug, di cui si parlerà subito, che sono stati denunciati come cancerogeni, e nocivi più in generale, da una comunità internazionale di esperti, i quali nel 2004 hanno stilato e presentato l' "appello di Parigi" contro gli effetti deleteri dell'inquinamento chimico.

Quali sono dunque queste nuove tecniche agricole ? Queste tecniche prevedono la preliminare selezione e manipolazione genetica dei semi in laboratorio (il cui uso è concesso su autorizzazione da apposite agenzie che si occupano della cura di quelli che sono chiamati OGM), l'automatizzazione sistematica dell'intero ciclo produttivo-distributivo (quindi l'uso di macchine), l'utilizzo pervasivo di concimazione chimica, quindi di diserbanti, fertilizzanti inorganici, antinfestanti, pesticidi e così via. Si aggiungono la pianificazione razionale delle rese e del lavoro, l'uso cospicuo di combustibili fossili (petrolio) per le macchine e il miglioramento dei metodi di irrigazione. Come si capisce nel suo discorso, per Borlaug la crescita demografica non va messa in discussione, anzi deve essere priva di limiti e accompagnata da un sistema produttivo agricolo sempre più efficiente e prolifico. Presupposto che è da pazzi totali se si pensa che il nostro pianeta è finito, con risorse altrettanto finite, e non può sostenere questo gravoso peso demografico, senza tenere conto dei risvolti altamente problematici di una crescita demografica sfrenata sul piano urbano e correlativamente psicologico-sociologico. In più Borlaug non considera gli effetti nocivi che la sua tecnologia agricola provoca: diminuzione delle proprietà qualitative dei prodotti (sapore, profumo, colore ecc.), squilibri ecologici legati all'immisione di specie transgeniche, inquinamento chimico cancerogeno dovuto all'uso di concimi inorganici e via dicendo (si potrebbe continuare). Insomma, Il punto di vista scientifico che Borlaug, da esperto del settore, vuole far valere, relativamente al problema mondiale dello scompenso tra risorse alimentari e uomini, è volto ad accompagnare la crescita esponenziale della popolazione o, se vogliamo, a prendere delle misure puramente contingenti e superficiali che non attenzionano il problema alla radice, focalizzandosi ad esempio sull'altra variabile non messa in discussione: l'aumento incontrollato della popolazione. Nel novecento, difatti, è avvenuto il più esponenziale e accelerato incremento della popolazione mondiale della storia: da un miliardo e mezzo circa, ai primordi del 900, ai sette miliardi circa di oggi. La "Green Revolution" è divenuta un processo globale di industrializzazione dell'agricoltura in virtù del suo progetto, apparentemente di successo e indolore, di armonizzazione di questo scompenso che si è presentato più volte nella storia della civiltà occidentale. Potrebbe forse anche essere l'ultima parola della scienza che dall'800 a oggi ha prevaricato ogni altra prospettva di discorso, profilandosi come presunto sapere onnipotente e supremo, capace di affrancare l'uomo dalle necessità naturali.

Quando e come si è svolta la "Green Revolution" ?


Monoculture farmer spraying fields with fertilizer.Tutto è iniziato nel 1943 in Messico, dove Borlaug lavorava come agronomo e genetista per la "Rockefeller foundation" (fondazione del capostipite John Davison Rockefeller che fino al 1911 deteneva il monopolio del mercato del petrolio; interessante sapere anche chi finanziò la "Green Revolution"...) che, insieme col governo nazionale, finanziava un progetto di ricerca scientifica sulla manipolazione genetica dei semi di mais, di patate, di fagioli e di grano ("Cooperative Mexican Government-Rockefeller Foundation agricultural program"). La finalità ? Riuscire a rendere il Messico autosufficiente nella produzione di grano che era molto scarso al tempo. Borlaug vi riuscì incrociando in laboratorio una specie di grano giapponese, bassa, una americana, capace di spargere attorno molti semi, e una serie di specie locali molto resistenti al clima indigeno e agli agenti patogeni del luogo. Ne vennero fuori diverse varietà che furono classificate come "grano nano". Questo tipo di grano non cresceva troppo in altezza, dunque non si piegava su di sè una volta cresciuto soffocando  se stesso e le piante vicine, rilasciava molti più semi e resisteva molto bene al clima e agli agenti patogeni locali. Con la nuova agricoltura della genetica il Messico si dotò del "grano nano" ed ebbe rese stratosferiche, riuscendo addirittura a divenire un importante esportatore da che era un paese povero di frumento. Questo metodo di produzione fu portato in India, in Pakistan e nelle Filippine negli anni '60-'70. Negli anni '80 approdò anche in Cina che si distinse come l'esperienza di incubazione più esplosiva e fortunata, visto che il paese divenne il primo produttore mondiale di cibo. L'espansione di questa nuova metodologia di produzione agricola (la "science-based agricultural technology") fu veicolata da istituzioni internazionali e sovranazionali quale la FAO e dagli USA che l'avevano inventata e sperimentata in casa propria. La giustificazione ideologica era "l'impegno umanitario" verso i paesi cosiddetti "sottosviluppati" e "in via di sviluppo", la realtà è stata ed è tutt'oggi un'altra...

Ma facciamo un passo indietro e cerchiamo di comprendere dove cominciò la Rivoluzione Verde e come. Quali furono le sue radici ottocentesche, che risalgono ad un certa razionalità, ad un certo egemone modo di pensare e di vedere il mondo, quello tecnico-scientifico ? Borlaug stesso si preoccupa di ricostruire storicamente il processo di gestazione della Rivoluzione Verde, individuando tutte le premesse del caso. Questa rivoluzione, che si concretizza essenzialmente in una compiuta industrializzazione tecnico-scientifica dell'agricoltura, si inscrive all'interno dell'ideologia borghese ottocentesca che credeva follemente e incontrovertibilmente nella supremazia della scienza come strumento di dominio sulla natura e di elevazione dell'uomo a signore del pianeta. Diversi furono i fili ottocenteschi che condussero alla sistematizzazione conclusiva nella forma datale da Borlaug.

Photo:John Bennet Lawes, aged c.45 - mid 1850s
Sir John Bennet Lawes
Nel 1842 Sir John Bennet Lawes produce il superfosfato di calcio, sostanza fondamentale con la quale si darà luogo ai primi fertilizzanti chimici.

Negli anni '40 dell'800 numerose navi sciamano verso i porti nordamericani ed europei trasportando i nitrati cileni, fondamentali per la fertilizzazione inorganica del terreno. Sia i superfosfati che i nitrati sono usati ancora oggi nella coltivazione del cibo che mangiamo.

Per tutto l'800 le acquisizioni di Darwin sull'evoluzione delle specie e di Mendel sull'ereditarietà dei geni (queste ultime furono note solo a cavallo tra 800 e 900) posero le basi per la manipolazione genetica dei semi.

Justus Von Liebig

Dalla metà dell'800 Justus Von Liebig e Jean-Baptiste Baussingault gettano le fondamenta teoriche per la "chemistry soil" ("chimica del terreno") e per la "crop agronomy" ("agronomia del raccolto"). Con loro avviene la configurazione scientifica della pratica agricola, da sempre stata un'attività empirica.

Questi sono i quattro fili da tenere a mente, che poi si annoderanno compiutamente con Borlaug e la "Green Revolution".

Nella prima metà del 900 queste premesse incominciano a maturare. Sino ai primi anni del nuovo secolo era rimasto predominante l'impiego di fertilizzanti organici, tuttavia si deve a uno scienziato tedesco in particolare la formulazione della procedura sperimentale per la produzione dell'ammoniaca, da cui, dopo la II guerra mondiale, si estrarrà il nitrogeno per i fertilizzanti inorganici: il suo nome tristemente noto (forse) è Fritz Haber. Era un chimico e lavorò durante la prima guerra mondiale alla produzione dei gas tossici, al cui uso esortò e convinse lo Stato Maggiore Tedesco. Sua è infatti la "costante Haber" che indica la dose minima di gas letale per l'uomo. Il suo contributo si fa sentire anche durante la seconda guerra mondiale, sebbene venga scacciato malamente da Hitler, perchè ebreo, ad un colloquio di mediazione che gli era stato organizzato dall'amico Max Planck. Haber infatti è colui che fomula il procedimento di composizione dell'acido cianidrico (meglio noto come Zyclon B, il gas usato con gli ebrei nei campi di concentramento). Ma non finisce qui. Haber nel 1909 aveva scoperto l'ammoniaca e nel 1918 sarà insignito del premio nobel, ma nel 1913 la sua formula fu perfezionata e brevettata da Carl Bosh che presiedeva il consiglio di amministrazione della BASF, quella che poi passerà alla storia con il nome infausto di IG FARBHEN, l'industria che nella seconda guerra mondiale produrrà il suddetto Zyclon B per lo sterminio degli ebrei. La BASF, tra l'altro, esiste ancora. E' curioso notare come siano così duttili le industrie e accorti gli imprenditori che le gestiscono, durante le due guerre la BASF usò il nitrogeno per la produzione di esplosivi, dal secondo dopoguerra per la produzione di fertilizzanti inorganici. Ma Borlaug non sembra essere interessato a scavare sotto l'apparente trionfalità del processo novecentesco inarrestabile di affermazione dei fertilizzanti chimici. In fondo è uno scienziato, nel suo discorso si preoccupa più di dati, tabelle, numeri, dimenticando la storia tragica e i volti umani delle persone che stanno dietro alle vicende di cui parla.
Dunque la "Green Revolution" è OGM, concimazione chimica, automatizzazione, efficientizzazione dei sistemi di irrigazione, marginalizzazione pressochè totale dell'uomo dall'attività agricola, industrializzazione del lavoro che viene pianificato, razionalizzato e specializzato, riduzione delle persone acquirenti a "consumatori" di merci. Tutto per ovviare allo scompenso tra risorse alimentari insufficienti e uomini da sfamare (in particolare nei paesi del "terzo mondo"). Oggi però si continua a fare agricoltura in questo modo e numerossime sono le contestazioni degli ambientalisti e dei cittadini che si sono associati per ricollegarsi coi produttori locali che coltivano secondo i principi della "bioetica" o del "biologico certificato". Il fine è di mangiare sano, di restituire l'agricoltura alla "persona" e di armonizzare la propria esistenza con l'ambiente naturale; in questo modo si intaccano gli interessi degli agricoltori "convenzionali" e delle multinazionali che operano nel settore alimentare che hanno come esclusivo fine il profitto autoreferenziale e non il soddisfacimento salubre dei bisogni di sussistenza dei "consumatori". Questi sistemi di autogestione economica provengono dal basso e manifestano l'idea di fare del cibo (ma non solo...) non una merce, per il profitto di pochi industriali che lucrano seguendo la logica alienante e nociva della globalizzazione, bensì un "bene comune", l'intermezzo attraverso cui si valorizza una relazione interpersonale di dialogo e di piena convivenza.

Oggi, sin dal volgere del XXI secolo, si sono strutturati diversi sistemi paralleli di gestione delle risorse agricole, alternativi a quelli della "Green Revolution".

I GAS, i Gruppi di Acquisto Solidale, che furono messi in atto nel 1994 a Fidenza (Italia) da un gruppo di famiglie che volle raccordarsi direttamente coi produttori locali, arrivando a pubblicare nel 1996 un libro ispirato ai principi del "consumo critico" ("Guida al consumo critico" edito dal Centro Nuovi Modelli di Sviluppo). Nel 1997 naque anche "retegas" la rete dei gruppi di acquisto solidale.

C'è anche il sistema degli orti urbani condivisi, molto diffuso. Ci sono realtà più avanzate e radicali che optano per la costituzione di nuove forme di convivenza diverse dal modello cittadino-metropolitano con tutto ciò che esso implica: "Agrivillaggi", "Ecovillaggi" (in Italia c'è la RIVE, Rete Italiana dei Villaggi Ecologici, costituitasi nel 1996 per coordinare tutti gli ecovillaggi disseminati per l'Italia; l'ideatore degli ecovillaggi è David Holmgren, teorico tra l'altro della pratica della permacultura), "Comunità neorurali" e una miriade sterminata di altri modelli di convivenza. Ci sono anche le "Città di Transizione" che vogliono invece riconvertire il centro urbano metropolitano in strutture comunitarie "resilienti" di autogestione delle risorse, l'artefice di questa nuova realtà è Rob Hopkins che l'ha resa autonomamente funzionante a Kinsale in Irlanda e a Totnes in Inghilterra, tra il 2005 e il 2006. Oggi queste "transition towns" si sono moltiplicate vertiginosamente e si è costituito addirittura un organismo internazionale di raccordo e di diffusione in tutto il mondo di questo modello. In Italia sono tante le realtà urbane "in transizione". Si può anche parlare del fenomeno degli "wwoofers", ovvero di coloro (giovani in particolare) che accettano l'intermediazione dell'associazione WWOOF, con le sue filiali in tutti i paesi europei, per fare svariate esperienze pratiche, in aziende biologiche o in comunità neorurali e così via, volte all'apprendimento di modi alternativi di fare agricoltura: comunitari, biologici, interpersonali e naturali.

Oggi, prossimi alla fine del 2014, possiamo dire che la la via verso lo dissoluzione totale dell'agricoltura modello "Green Revolution" è un po' più definita e spianata rispetto a prima, in barba al buon Norman Borlaug che era convinto con la sua scienza genetica e agronomica di aver risolto il problema dello scompenso tra uomini e risorse alimentari. Borlaug è deceduto nel 2009 per via di un cancro, chissà se questo non fu dovuto agli innumerevoli effetti cancerogeni delle pratiche della "Rivoluzione Verde", tanto denunciati da ambientalisti e da comunità di medici esperti (il succitato appello di Parigi del 2004). Sarebbe il colmo dello scienziato che credeva con la scienza di aver sconfitto la natura con le sue pressanti necessità, salvo poi vedersi solo e gabbato lui stesso dalla sua incontenibile potenza.



La razionalità tecnico-scientifica e la tecnologia: l'economia non come vita ma come scienza matematizzante per dotti universitari.

 
In fondo questo è l'ennesimo fallimento della scienza che ha inquadrato il problema da una prospettiva parziale e unilaterale, facendo degli uomini e delle risorse agricole soltanto delle variabili nel suo grafico matematico-sperimentale da laboratorio. In realtà dietro l'economia, agricola in questo caso, ci stanno tanti altri fattori fondamentali che una certa superba prospettiva tecnico-scientifica, potremmo dire più propriamente tecnologica, eclissa o stigmatizza. Questi fattori fanno capo all'idea per cui l'economia è originariamente nata come un'attività comunitaria realizzantesi nell'autogestione corale delle risorse, adoperate al fine di soddisfare i bisogni primari di sussistenza della collettività (vedremo questa sua origine attraverso la figura di Aristotele). "Economia" etimologicamente proviene dal lessico aristotelico che ne parla tra l'altro in un'opera incentrata sul tema della "politica". Viene dalla combinazione delle due parole greche "οἶκος" ("casa") e "νόμος" ("norma"), per cui significa letteralmente "legge, o norma, della casa", ovvero "cura dei beni familiari, del patrimonio fondiario". Con questo si vuole dire che l'economia è un'attività essenzialmente pratica, volta al soddisfacimento dei propri bisogni; dal secondo ottocento sino ad oggi, invece, l'economia è diventata "scienza", non si parla più di vita economica, o anche di vita politica, sociale, giuridica ecc., ma di "scienze". L'economia è stata scientifizzata a cavallo tra 800 e 900, astraendosi dalla realtà pratica, dal "mondo della vita", divenendo una scienza matematizzante e sperimentale, imbottita di modelli simbolici, di costanti, di formule e di ciarpame vario; nel contempo si è radicato nel senso comune il preconcetto per cui non si può fare economia, così come politica, se non si hanno le competenze di "scienza giuridica", di "scienza politica" o di "scienza economica". Insomma, l'industrializzazione burocratizzante e tecnico-scientifica dell'economia agricola, radicata nell'800, ha trovato correlativamente giustificazione ideologica nel processo di scientificizzazione matematizzante della rispettiva forma di sapere: ed ecco che ancora oggi da allora si parla di "scienza economica", di "scienze agrarie", così come di scienze storiche, di scienze filosofiche, ambientali e forestali, e così via. L'istituzionalizzazione burocratica, impersonale e astratta dal tessuto sociale, dei valori/beni comuni dell'economia, della politica, dei cosiddetti "servizi sociali" (istruzione, sanità ecc.) e la riduzione di queste attività di natura originariamente pratica a "scienze" insegnate all'università sono andate di pari passo. Oggi si insegnano all'università queste scienze, obliando la loro radice vitalistico-pratica nonchè comunitaria che rende loro giustizia, e, riducendole ad uno strumentario amorfo e tecnicistico di concetti operativi, si mira ad indottrinare gli studenti ai principi di una ordinaria amministrazione burocratica di tutti questi beni, quali l'economia, la politica ecc., ridotti a servizi/merci da erogare. L'università di oggi ci prepara per il settore terziario-impiegatizio, il cosiddetto settore del "lavoro intellettuale", dei "colletti bianchi", che ha ormai surclassato da tempo quello delle "tute blu" e dei contadini, perchè è quello che serve alle industrie dei servizi: ogni singola facoltà è funzionale alla mercatocrazia del lavoro terziario e burocratico, che svela un aspetto oscuro del tanto decantato "Welfare State". La cosa interessante è proprio questa, che dietro all'istituzione super-partes dello Stato che eroga i suoi servizi non c'è giustizia sostanziale, poichè vi si celano nei fatti tutti gli interessi egoistici dei tecnocrati a cui è affidata la loro amministrazione, siano essi "pubblici" o "privati". Dunque di tutte le attività pratiche volte al soddisfacimento dei bisogni che costellano la vita dell'uomo, si è fatto un insieme di professioni con realtive "competenze specialistiche" e di scienze da imparare all'università nel solco di una sistematica specializzazione del lavoro.

Ma torniamo ad Aristotele, perchè è attraverso di lui che si possono afferrare i termini del problema dell'economia odierna, cercando di saggiare quella che era la sua radice originaria, la sua ragion d'essere tradita dalle astrazioni e dalle derive scientifizzanti e burocratizzanti del tempo. Come si diceva prima, l'economia oggi è una "scienza", un sapere astratto, accademico, professionistico, in possesso dei tratti metodologici della scienza (metodo sperimentale e quantificante, logica simbolica matematizzante), è teoresi pura, non pratica di vita. Per un pensatore come Aristotele, appartenente ad un tradizionale, e tipicamente greco, modo di intendere la vita societaria, nella sua essenza comunitario, l'economia, come suddetto, era un'attività pratica, assolutamente alla portata di tutti, che si articolava in cellule comunitarie disposte in ordine crescente, come spiega nel Libro I della Politica (famiglia, villaggio, pòlis). Non era una scienza nel senso odierno del termine, era una pratica di vita. Oggi invece l'idea radicata nel senso comune è quella per cui se vuoi fare economia (agricola, ricollegandoci al tema centrale) devi avere una laurea o chissà quali meschine competenze da gretto specialista; tuttavia, in controtendenza con questo modello, si è affermata dalla fine dello scorso secolo un'idea diversa di economia, forte della sua ragion d'essere originaria, della sua essenza perduta e mistificata dalla "scienza economica". In sintesi, oggi le due diverse idee di economia sono quella modello Borlaug, lo scienziato all'opera che gioca in laboratorio (a cui si aggiunge il professorino economista che vaneggia e sputa pevisioni, formule, sistemi teoretici venduti come saponette per i quali prende pure dei tristissimi premi nobel), o quella direttamente democratica, autogestita dal basso, dalle tinte personalistiche e cooperativo-comunitarie. Da un lato un'idea teoreticistico-scientifica di economia, fatta in laboratorio, operativamente e idologicamente congeniale ad un complesso disarticolato di interessi egoisitici industriali dall'essenza capitalistica che si confà ad un tipo di società atomistica, dall'altro un'idea di economia che spontaneamente si è manifestata nella forma dei GAS, per non citare tutti gli altri casi, e che vuole riportarla al suo compito originario, utilizzandola secondo il fine per cui è nata, soddisfare i bisogni primari di una comunità di persone e non le esigenze di profitto di pochi a danno dei molti (i "consumatori", termine altamente ideologico che razionalizza l'estrema irrazionalità dello status quo che vede gli uomini come dei consumatori di merci e non come dei "fruitori" che mangiano del cibo perchè ne hanno bisogno, ad esempio). Non la crescita per la crescita, la produzione seriale fine a se stessa, per cumulare ricchezze su ricchezze, ma un'economia che si preoccupi dei bisogni naturali/necessari e naturali/non necessari, delle persone, depurandosi da tutti quei "falsi bisogni", eteroindotti con la pubblicità (ma non solo) da quegli interessi industriali che, per preservare il proprio tornaconto personale, producono merci sempre più varie e sofisticate instillando nel contempo nelle masse di "consumatori" le imprescindibili istanze di comodità . Ma sentiamo cosa può farci capire Aristotele della natura originaria dell'economia.

Nel I libro della Politica Aristotele fa riferimento ad una controversia sorta in merito alla crematistica e all'economia. L'economia, nell'accezione originaria e prima datale da Aristotele, significa, come suddetto, "cura dei beni familiari", mentre la "crematistica" è l'arte di cumulare ricchezze attraverso lo scambio. Ancora oggi si parla di una "concezione crematistica dell'economia" laddove si vuole sottolineare che predilige lo studio delle modalità di acquisizione delle ricchezze. Aristotele si chiede se economia e crematistica siano la medesima cosa, cioè se l'una sia agli antipodi rispetto all'altra, o se la crematistica sia subordinata all'economia. Aristotele chiarisce sin da subito che crematistica ed economia non sono la stessa cosa, perchè l'una mira a "usare" i beni, mentre l'altra a "procacciarli".


"Si vede chiaramente che l'arte dell'amministrazione domestica non è la stessa che la crematistica (perchè funzione dell'una è procacciare, dell'altra usare: e quale sarà l'arte che userà i beni della casa se non l'arte dell'amministrazione familiare ?): comunque se la crematistica sia parte dell'amministrazione domestica o di specie differente è una questione discussa."

(Aristotele, "Politica", libro I, paragrafo 8).

Proseguendo, Aristotele cerca di rispondere alla domanda se la crematistica sia parte dell'economia e spiega che ci sono due tipi di crematistica: una che ha un fine in sè, e cioè che mira all'autoaccrescimento autoreferenziale, tipica di un certo tipo di scambio quale quello praticato per mezzo della moneta; e una che ha un fine nel soddisfacimento di bisogni primari manifestati da una famiglia, da un villaggio (formato da più famiglie) o da uno pòlis, una comunità di più ampio respiro che racchiude tutti i villaggi. Il secondo tipo di crematistica è parte integrante dell'economia e mira a quello che per il filosofo è il fine prescritto dalla natura: l'autosufficienza e una vita felice. Il primo tipo, invece, non è compatibile con l'economia, perchè è il frutto, come dice Aristotele, di una serie di attività commerciali che si sono sviluppate a lunga distanza, grazie all'impiego della moneta e a causa di un notevole accrescimento della comunità.

L'idea di Aristotele è che la crematistica in sè sia dannosa, laddove essa mira a cumulare ricchezze su ricchezze in modo ipertrofico e autoreferenziale. Al contrario essa è fondamentale per integrare e completare l'economia, cioè quell'attività comunitaria, inizialmente familiare, volta al soddisfacimento dei bisogni primari, laddove però l'accumulazione di ricchezze ottenute col commercio è funzionale a questi bisogni comunitariamente manifestati.


"Ma della crematisitica che rientra nell'amministrazione della casa, si dà un limite giacchè non è compito dell'amministrazione della casa quel genere di ricchezze. Sicchè da questo punto di vista appare necessario che ci sia un limite a ogni ricchezza, mentre vediamo che nella realtà avviene il contrario: infatti tutti quelli che esercitano la crematisitica accrescono illimitatamente il denaro. Il motivo di tutto questo è la stretta affinità tra le due forme di crematistica: e infatti l'uso che esse fanno della stessa cosa le confonde l'una con l'altra. In entrambe si fa uso degli stessi beni, ma non allo stesso modo, che l'una tende a un altro fine, l'altra all'accrescimento. Di conseguenza taluni suppongono che proprio questa sia la funzione dell'amministrazione domestica e vivono continuamente nell'idea di dovere o mantenere o accrescere la loro sostanza in denaro all'infinito. Causa di questo stato mentale è che si preoccupano di vivere, ma non di vivere bene, e siccome i loro desideri si stendono all'infinito, pure all'infinito bramano i mezzi per appagarli."

In che modo questa tesi di Aristotele può aiutarci ad afferrare l'essenza del problema odierno ? Nell'Occidente e nel mondo, l'economia si è risolta nello scambio anarchico e autoreferenziale, praticato da interessi egoistici individuali che si rapportano l'un l'altro contrattualisticamente e con diffidenza, in un regime di sottile "bellum omnium contra omnes". Oggi l'economia di mercato capitalistica, mondializzata, onnimercificante e assolutizzata, retta da oligopoli di multinazionali che operano in svariati ambiti, è una versione iperevoluta di crematistica in cui si cresce per crescere, si produce illimitatamente non per i bisogni di una collettività comunitariamente definita, bensì per la brama di profitti di pochi potentati. Aristotele coglie già i rischi insiti in una crematistica del commercio sfrenato (monetario), che gioca con le ricchezze estraniandole dallo scopo intrinseco per cui sono nate: essere usate per soddisfare dei bisogni liberamente e spontaneamente manifestantesi. L'economia, al contrario, nel senso in cui la intende lui, è un'attività che si fonde strettamente con la politica, che ha i caratteri di una autogestione familiare e cittadina (realtà da intendere in senso comunitario) imperniata sull'agricoltura, sulla terra.

Dunque il problema è se intendere l'economia, con Aristotele, come un'attività pratica, comunitaria, fatta da persone che collaborano a che i propri bisogni spontanei vengano soddisfatti, oppure come una scienza astratta per dotti professori universitari, al servizio di un'economia di mercato capitalistica e industrialistica, mondializzata e oligopolica, spersonalizzante e atomistica. Nel primo caso, si dovrebbe integrare quell'idea di economia con certe acquisizioni importanti del liberalismo che ha riconosciuto all'uomo la propria libertà individuale, in società cittadine sempre più mastodontiche e massificanti. Si propenderà per un mercato liberista, in cui la ricchezza è data dallo scambio monetario fra individui che si fanno concorrenza e si rapportano contrattualisticamente, oppure per un mercato che si riconfiguri in senso localistico-comunitario, che si sviluppi attorno al concetto di "bene comune" e non di "merce", finalizzando lo scambio al bisogno e non alla ricerca del profitto fine a se stesso? Si potrebbe fare tesoro di tutte le realtà associative alternative che si muovono in questa direzione, rendendole intanto pienamente operanti e funzionanti (GAS, Ecovillaggi, Agrivillaggi, orti urbani ecc.), per costituire saldamente un sistema socio-economico parallelo che sperimenti nuove forme di convivenza, per poi giungere ad un complesso di valori etico-politici nuovi rispetto a quelli tradizionali. Oggi la via verso nuovi modi di vivere è più chiara, ma è disarticolata, riluttante e ancora piva di una visione di insieme, lungimirante e ad ampio raggio, che si ponga dunque il problema di superare l'odierno modo di fare economia (e politica allo stesso tempo).

Un'economia fatta dal basso, che aspiri ad essere comunitaria, che parli anche di felicità interpersonale, autogestita in modo direttamente democratico, praticata in funzione di bisogni spontanei e liberi, che abbandoni il superfluo del lusso e delle comodità, il cui bisogno è indotto con la pubblicità da pochi interessi industriali accecati dal profitto che vogliono cittadini/consumatori sempre frustrati e insoddisfatti. Un'economia che recuperi le sue radici comunitarie, superando il caos anarchico e individualistico del mercato di matrice moderno-liberale, riabilitando l'agricoltura naturale e facendo della ricchezza un "bene" generato dalla coltivazione solidale e cooperativa della terra, piuttosto che dallo smercio di comodità e sofisticherie o dal mercato finanziario delle borse.

  
                                                                                                                                     Ugo Giarratano

giovedì 4 dicembre 2014


Nietzsche, la gioventù e la crisi della cultura moderna: un viaggio tra le miserie della scuola di ieri e di oggi, per capirci qualcosa sul fenomeno dell'occupazione.



"": tra virgolette sono inserite tutte le espressioni, le parole e i pensieri più articolati tratti dalle opere di Nietzsche, dall'uso comune o da altre opere pertinenti di pensatori scelti.

A Palermo il fenomeno dell'occupazione è oramai un evento che si ripete annualmente. Il sottoscritto ha vissuto tre occupazioni quando frequentava il liceo Cannizzaro, avvenute a distanza di due anni, rispettivamente al primo, al terzo e al quinto anno. La mia impressione di fondo è che l'occupazione non sia, come semplicisticamente si suole dire, solo una "perdita di tempo", un "modo per saltare giorni di scuola" o quant'altro, perchè, a mio avviso, è espressione di un certo disagio e di una certa insoddisfazione degli studenti nei confronti della propria vita scolastica. Il dramma è che oggi gli studenti, così come quando io ero al liceo, (in questo caso il riferimento va principalmente agli artefici dell'occupazione) non sono consapevoli della natura di quelli che sono i difetti radicali del sistema scolastico, rintracciabili direttamente nell'alienazione della giornaliera vita da scolari. L'occupazione è spesso e volentieri una confusa, disorientata e disorganica forma di contestazione, che però per me rimane genuina e spontanea nella sostanza. Poi potrà anche darsi che mi sbagli totalmente.


Lo scopo di questo articolo è di fare un po' di chiarezza e di offrire una personale chiave di lettura riguardo al fenomeno dell'occupazione, per capire perchè nasca. L'intento è di riprendere un autentico filosofo, forse l'unico o uno dei pochi che la modernità decadente, di cui noi oggi siamo figli, ci abbia lasciato. Questo filosofo è Friedrich Nietzsche. Può sembrare impossibile che possa stabilirsi un nesso tra Nietzsche e il problema del sistema liceale, di cui l'occupazione è la manifestazione critica. Ma come si cercherà di dimostare, il nesso c'è, eccome, e si estende anche al problematico sistema universitario. Quest'articolo è anche un modesto tentativo di dimostrare a chi crede che la filosofia o la cultura in generale siano astratte e inutili che possono essere qualcosa di diverso e darci l'aiuto necessario per avere le idee chiare circa la nostra vita in società, in tutti i suoi aspetti. Possono anche essere d'aiuto nel definire a mente i propri fini pratici e non subire passivamente le angherie che si soffrono quotidianamente.

Perchè Nietzsche e il liceo ? Cosa c'entra con i nostri problemi da studenti proni ad una cultura degenere che si riduce a mera e nozionistica "istruzione" ? Beh, Nietsche è stato uno studente di "Pforta", una prestigiosissima scuola privata tedesca della seconda metà dell'Ottocento che corrisponde al nostro liceo di oggi; è stato uno studente universitario, come molti di noi lo sono o lo saranno. Ha vissuto l'iter scolastico e ne ha esperito i difetti, le ingiustizie, l'alienante stile di vita. Il suo contributo consiste essenzialmente nell'aver criticato la misera e meschina idea di cultura sottesa al sistema scolastico-universitario del suo tempo. Ma dove sta ancora il nesso ? Nietzsche contesta con perspicacia i difetti di un certo modo di intendere la cultura nella pratica didattica del suo tempo, difetti che tristemente persistono tutt'oggi, sebbene il liceo e l'università di oggi non siano quelli della Germania della fine dell'ottocento. E queste deficienze del metodo odierno di insegnamento sono quelle contro cui si dovrebbe lottare, immaginando ed elaborando un'idea diversa di vita scolastica. Questo si dovrebbe fare, invece di occupare la scuola ritualmente, perdendosi in confuse e stravaganti rimostranze contro il governo ingiusto di turno o quant'altro.

Ma quali sono questi difetti che sono motivo di insoddisfazione perenne per lo studente liceale ?

La monotonia dello stile di vita scolastico, la noia delle lezioni, l'abbrutimento dovuto allo stare rinchiusi in casa a "studiare" (parola ormai diventata impronunciabile e discutibile, se non addiruttura da superare per tutto ciò che rappresenta) per i compiti o per le angoscianti verifiche orali e scritte del giorno dopo. E ancora, la votocrazia, la competizione in classe, il piccino nozionismo, lo stare sempre seduti per sorbirsi i monologhi dei professori. E si potrebbe proseguire all'infinito.

Ma cos'è che accomuna tutti questi aspetti ? Cosa rende sempre senza risposta domande del tipo: a te piace studiare ? Ti piace la scuola ?


Domande da cui dovrebbe partire tutta la contestazione degli studenti, domande apparentemente banali e sciocche, ma che invece sono di importanza capitale, perchè colgono il punto critico. A nessuno piace studiare o andare a scuola. Se si trova qualcuno a cui piace, non ci si imbatte mai in una sua piena e perfetta soddisfazione, in una sua lode entusiastica della scuola e dello studio, semmai si nota che si sofferma su altri aspetti che sanno più di contentini per salvare i ruderi fumanti di una scuola amorfa, come l'incontrare quotidianamente i propri compagni o i propri amici, con cui si cerca di allietare una vita scolastica essenzialmente alienante, che non realizza pienamente. E poi, se questa scuola fosse così apprezzata, come certuni sostengono, perchè mai tutti gli studenti all'unanimità ed euforicamente gioirebbero ogniqualvolta si presentano le vacanze o quando si ventila la possibilità di saltare giorni di scuola ? Perchè allora, se la scuola piacesse veramente, si dovrebbe fare di tutto per ottenere il beneplacito per un'assembea d'istituto o di classe, indette coll'unico fine di saltarsi ore di lezioni o un giorno di scuola ? E poi lo studio, a chi piace veramente ? Al massimo, si possono incontrare persone che ti dicono che a loro non dispiace dedicarvisi, ma mai si slanciano in elogi convinti. Perchè dovrebbe piacere uno studio che annoia mortalmente ? Uno studio che piace veramente potrebbe mai essere compatibile nel contempo con la noia ? Inutile ricordare i pianti delle proprie compagne, in cui ogni tanto mi sono cimentato, quando sono frustrate dal voto basso o dall'idea, magari, di non essere in grado di sopportare il fardello di un sistema miopemente e barbaramente votocratico. Anche qui sarebbe bello proseguire, perchè i casi esemplari probanti sono davvero tanti e devo ancora trovare qualcuno che abbia il coraggio sfrontato di dirmi che la vita scolastica è costellata di piene soddisfazioni, di felicità e di benessere. Con questo non si vuole dire che bisogna segregarsi in casa e vivere eremiticamente, semplicemente si vuole mettere in rilievo come la vita a scuola sia fatta per lo più di continui tentativi di andare avanti, di sopravvivere agli ostacoli di un insegnante autoritario o di una famiglia esigente, o di una pagella piena di voti bassi. La scuola e il momento dell'insegnamento sono strutturalmente un peso per lo studente, pur tenendo conto delle belle e limitate eccezioni che ci sono sempre (e mi riferisco a quegli insegnanti che con certi limiti si discostano dal modello egemone di insegnamento, eminentemente votocratico).

Dunque, come si diceva poc'anzi, Nietzsche critica radicalmente l'idea di cultura che è propiziata con fermezza negli ambienti scolastici e universitari del suo tempo. Qui di seguito, procederò a mettere in risalto gli illuminanti collegamenti che sussistono con l'idea di cultura del nostro tempo, limitatamente, nella fattispecie, all'Italia e alla città di Palermo. Dove se non nei licei (o anche nelle università, nelle scuole medie o elementari) si deve ricercare quel complesso di elementi dai quali si può desumere l'idea che oggi si ha della cultura, sia da parte del ceto dei professori che da parte dei genitori. A farne le spese in modo irreparabile, in altri termini, a vedere rovinate, infiacchite e invalidate le proprie vite sono gli studenti, tra i quali non mancano gli indifferenti, i confusi ribelli, i solerti adattati o gli apologeti del sistema.

A questo punto, quindi, bisogna rispondere alla domanda "che cos'è oggi la cultura ?" E questo lo si può fare misurandosi con l'ambiente liceale e la pratica didattica che qui viene portata avanti. Attraverso Nietzsche, e alcune opere in tal senso significative, si può afferrare quello che è un problema cruciale di cui noi siamo eredi, in cui ci siamo ritrovati e immersi da studenti liceali: il problema della perdita totale di senso e di valore per la propria vita dei saperi che ci vengono oramai inculcati nozionisticamente ed enciclopedicamente, non soltanto al liceo, ma a tutti i livelli dell'iter scolastico. Ormai i saperi si riducono a qualcosa di imparaticcio, di vuoto e di anonimo, si sono ridotti a dei contenitori assoluti di informazioni cui si attinge solo per il fine omogenenamente indotto e diffuso di trovare un lavoro ben retribuito e sicuro. I diversi saperi, che l'uomo ha fondato e concepito come delle vie diverse attraverso cui dare delle risposte alle proprie istanze di senso o ai propri interessi, sono ridotti ad uno strumentario puramente concettuale adoperato solo per conseguire un posto di lavoro sicuro e sopravvivere in una società che è polverizzata nel suo esasperato individualismo e nella sua incapacità di garantire delle prospettive di veramente libera progettazione delle proprie esistenze. Questo non significa che allora si deve desistere dal cercare un lavoro o abbandonare la scuola, si vuole porre l'accento sull'irrazionalità e il danno che sono insiti in queste idee di cultura e di lavoro, visti solo come strumenti a noi estranei. Difatti, la scuola e il lavoro non sono percepiti come parti integranti della propria vita, come forme espressive della vita stessa, ma solo come dei pesi, delle realtà viste, e a volte giustificate, come necessarie nella loro assoluta mancanza di qualsivolgia orizzonte di senso o di valore per la realizzazione e il benessere di sè (che non siano solo intesi in un senso grettamente economico). Il modo in cui si bramano con trepidazione le vacanze, estive e non, o i "giorni di disinfestazione", le assemblee di istituto o di classe, è il corrispettivo di grado inferiore del modo in cui sono agognate le ferie dal lavoratore medio di oggi. Questa brama di evitare giornate di lavoro o di scuola è l'indice di una vita alienante, che non soddisfa pienamente, che snerva, che stanca ed infiacchisce. Che valore può avere uno studio che è vissuto come costrizione e come fatica, come qualcosa da cui comunque è preferibile fuggire ? Che valore può avere un lavoro visto come onere da sopportare, come peso necessario per sopravvivere ? Un lavoro e uno studio fatti di frenesia quotidiana, di noia, di ansia. E che valore può avere questo "tempo libero" (ferie, vacanze e compagnia bella) che non è "libero" ma programmato, perchè vissuto come fuga dalla faticosa tiritera quotidiana o perchè prestabilito dall'altolocato potere pubblico o privato che sia ? Un tempo libero che, sia a scuola sia a lavoro, è visto come fuga dall'obbrobbrio quotidiano, un tempo libero che non è deciso da me (o da noi), ma che è prestabilito e centellinato dall'alto, un tempo libero che gli insegnanti concepiscono come tempo utile per svolgere i compiti arretrati o leggere i libri assegnati (quale colossale contraddizione). Comunque sia, anche nel migliore dei casi si ha la sensazione che sia lo studio che il lavoro non siano completamente motivo di realizzazione e di benessere personali.




Dunque, la scuola andrebbe pensata, in un'ottica agonico-critica di contestazione quale vorrebbe essere quella degli "occupanti", come una società in miniatura che risponde a quello che è considerato egemonicamente, dall'ideologia predominante, il tipo di uomo che deve uscirne. Un uomo alienato, abituato all'indifferente ed apatico adattamento a quelli che sono i fini predefiniti della società in cui vive: essenzialmente un lavoro altrettanto alienante che riproduca le stesse condizioni della vita scolastica. Il dramma di oggi è che si lotta, cosa che tristemente dovrò fare anch'io da aspirante laureato in filosofia, nonchè disoccupato e precario (in una facoltà in cui della filosofia si fa reificante mercimonio), per un lavoro da alienati, da precari, un contentino. Il massimo che la politica istituzionale sa e può offrirci, nel migliore dei casi, è un posto di lavoro anonimo a cui dobbiamo adattarci docilmente, col capo chino e magari anche con un misero senso di riconoscenza. Oggi si vogliono, al lavoro come a scuola, uomini competitivi e cinici, con spirito di adattamento e atteggiamento compromissorio, intercambiabili e pragmatici, produttivi, solerti ed efficienti (se poi, come il potere politico di turno vorrebbe fare, si consente alle imprese private di attuare dei corsi di avviamento al mercato del lavoro persino nei licei, ancora meglio!). Tutto questo perchè il "mercato del lavoro ce lo chiede".

Tornando a Nietzsche, la sua critica dell'idea di cultura è compendiabile in alcuni punti che possono essere sistemati organicamente addentrandosi tra le pagine bellissime delle sue opere giovanili.

A titolo di premessa, si possono illustrare alcuni cenni storici essenziali che rendono intelligibile il senso della critica di Nietzsche alla cultura del suo tempo, che è nella sostanza la cultura decadente della nostra epoca. Nietzsche vive nella Germania dei "dotti filistei", cresce temprato dalla dura disciplina della scuola privata di Pforta e deve dimenarsi costantemente, in veste di filologo, nel mondo accademico dell'università svizzera di Basilea, criticando l'astratta e formale "culturalità" dell'élite di specialisti e di professori universitari che concorrono alla definizione e alla preservazione dell'ideologia della società. Il suo bersaglio di critica è la cultura che questi dotti esprimono e sostengono a spada tratta, la cultura della "borghesia" (dell' "uomo moderno") che ha creduto, sin dai primordi del progetto illuministico, nel potere supremo della ragione, del sapere e della scienza. Più nello specifico, e qui si giunge al nesso con il problema in questa sede sollevato, la borghesia moderna ha creduto nel primato dell' "istruzione" come strumento fondamentale per compiere il destino inevitabile del progresso materiale e morale della società.
Ma che tipo di "istruzione" ? L'istruzione scolastica e universitaria, ma ancor prima quella primaria. L'istruzione cui oggi si fa riferimento, e il sistema educativo che abbiamo, sono il retaggio storico-ideologico che riflette nella sostanza, con le dovute e importanti differenze specifiche, quel progetto originario, ossia il progetto progressista illuministico-borghese del sette-ottocento. Nietzsche vive nella seconda metà dell'ottocento e incarna tutto il disagio e l'insoddisfazione dell'uomo moderno, dell'uomo decadente del suo tempo, nei confronti di un' "istruzione senza vivificazione". Noi viviamo nel XXI secolo e non siamo ancora riusciti a schermirci da quell'eredità ormai avvertita come un peso insopportabile.

Per fare un riepilogo d'insieme, si può dire che la nostra società, la società italiana, perpetua il tipo di uomo che vuole per il suo futuro; dall'età moderna ad oggi si è sviluppato in tutte le sue potenzialità il modello scolastico-universitario, rispondente all'ideale della borghesia illuminista, ossia l'ideale di un'istruzione alla portata progressivamente di tutti per migliorare moralmente e materialmente la società. Noi oggi, in Italia in particolare, dove permane la struttura scolastica delineata dal filosofo attualista fascista Giovanni Gentile, siamo eredi di quel modo di concepire il sapere e i suoi metodi di trasmissione. La rilevanza di Nietzsche in questo senso risiede nell'aver individuato certi difetti strutturali nel sistema scolastico-universitario tedesco del suo tempo che sono tutt'oggi nelle nostre scuole persistenti e che dimostrano l'insufficienza del progetto italiano, moderno, borghese, liberaldemocratico, di educazione dei "cittadini liberi ed eguali".

Ma che significa tutto questo ? Partiamo dalla "II considerazione inattuale" di Nietzsche che s'intitola "Sull'utilità e il danno della storia per la vita", perchè è qui che il filosofo si preoccupa del futuro dei giovani, mettendo in evidenza quanto siano repressivi e alienanti i metodi vigenti di insegnamento.


Sull'utilità e il danno della storia per la vitaNella prefazione Nietzsche è subito diretto e chiaro nello spiegare il problema trattato nel libro.


" "Del resto mi è odioso tutto ciò che mi istruisce soltanto, senza accrescere o vivificare immediatamente la mia attività". Con queste parole di Goethe, come un cetereum censeo energicamente espresso, può cominciare la nostra considerazione sul valore e la mancanza di valore della storia per la vita. In essa si esporrà infatti perchè un'istruzione senza vivificazione, perchè un sapere in cui l'attività s'infiacchisce, perchè la storia in quanto preziosa superfluità di conoscenza e in quanto lusso, ci debbano essere sul serio, secondo il detto di Goethe odiosi - per il fatto cioè che mancano ancora del più necessario, e che il superfluo è nemico del necessario."



Nietzsche critica, dunque, un certo tipo di "istruzione", perchè, secondo lui, nelle scuole e nelle università, questa ha ormai perduto ogni prospettiva di senso e di valore. E' un'istruzione astratta e formale, che non dice nulla al giovane studente, non lo soddisfa nè vivifica in nessun modo. Quante volte si legge nei volti degli studenti, siano al liceo o all'università, la noia soporifera che è in loro suscitata durante le lezioni da un modo di insegnare freddo e macchinale. Ci si deve passivamente sottoporre a lezioni frontali, articolate in monologhi unidirezionali fatti di nozioni da appuntare con affanno e frenetica precisione. Alla fine della lezione, figuriamoci durante, difficilmente si può essere consci dell'entità di ciò che il professore ha detto, del valore o del senso che possono avere per sè i suoi compassati e puntigliosi monologhi. Le lezioni diventano un lavoro in cui bisogna sistemare operativamente e formalmente ciò che ha detto il professore, per far sì che a casa risulti più facile ingoiare mnemonicamente tutte le nozioni che ci ha vomitato in faccia. L'idea del professore è di indurre negli studenti tutte queste informazioni per poi esaminarli con un voto reificante e omologante; poco importa della bontà di questo metodo, il proprio lavoro lo si è fatto con solerzia e finito un argomento si passa all'altro, perchè la tabella di marcia è più una corsa contro il tempo e poi ci sono le pagelline, le pagelle, i ricevimenti e bisogna avere un voto per dire che è tutto in regola. Lo studente si riduce a mezzo di comunicazione di contenuti che il professore vuole ripetuti pedissequamente, per filo e per segno. Il risultato è che lo studente non vede le lezioni come dei momenti di dialogo interpersonale libero e creativo con i propri compagni o con il professore, ma solo come delle seccanti necessità imposte che possono essere smorzate, al massimo, giocando o mandando messaggi col proprio telefonino, o facendo dei disegnini sui propri quaderni. Dunque un sapere formale e astratto da fagocitare meccanicamente, una cultura libresca che impone di mangiare tomi e tomi di nozioni, un sapere quantificato e mercificato nella forma del voto. L'alienazione che si fa strada, laddove non si fa ricerca costante per conoscere ed esprimere se stessi, rispondendo attraverso lo "studio" ai propri interessi o alle proprie istanze di senso, ma si memorizzano passivamente e meschinamente tutte le nozioni che ci sono inculcate per il voto. Il voto come feticcio che soppianta il valore e il senso che la cultura dovrebbe avere a scuola, non si studia per se stessi, ma per il voto. Anzi, quando si studia per se stessi, curandosi solo di quei saperi e di qelle problematiche che interessano, si viene duramente rimbrottati e riportati all'ordine ora dalla famiglia ora dal gretto professore di turno. Oppure, ove il sistema funziona pienamente, si smarrisce totalmente la ragion d'essere della cultura e dei saperi, disprezzandoli o facendone un uso mediato, funzionale a quella che diviene l'aberrante e sinistra brama di conseguire un voto alto o sempre più alto. Tutto per il voto, nulla per se stessi. Ciò che si studia diviene assolutamente indifferente, perchè ciò che è importante e arreca un subdolo e perverso piacere è il voto alto. Col voto basso si viene riportati all'ordine, si viene messi in riga, si fa capire allo studente che deve fare di più, che deve essere più produttivo ed efficiente nel fagocitare e incamerare tutto il sapere imparaticcio che è a lui trasmesso. Chi non ce la fa, chi prende voti bassi, chi non fa i compiti è solo un lavativo, un nullafacente, un discolo o un melenso perditempo. Chi ha voti alti è un "genio", una persona "intelligente", uno a cui guardare, uno che è sulla buona strada. In tutto questo sistema e modo di vedere si oblia completamente il senso della cultura, il suo valore inestimabile di pratica di vita. Essa diventa solo un possesso formale e vuoto, inconsistente e insignificante, che si riflette in modo del tutto apparente e artificioso nel voto.

Ma che fine fanno questi contenuti, rimane davvero qualcosa allo studente di tutto questo sapere da trangugiare con ansia e frenetica preoccupazione ? Cosa ne è dello studente come persona ?

Nietzsche riteneva che questo tipo di cultura, sciorinata nelle scuole e nelle università, plasmasse delle "personalità deboli", incapaci di percepirsi nell'unità complessiva e integrale del proprio essere, sempre scisse in senso bipolare tra forma e vita, "esteriorità" ed "interiorità". Delle persone fragili ed insicure, prive di identità, colte nell'incapacità marchiana di esprimere se stesse in modo schietto e sincero agli altri, perchè oppresse da un sapere alienato da trangugiare, da una cultura estranea, ridotta a teoreticistica "culturalità", a orpello da esibire come segno di prestigio sociale. Una personalità debole che non riesce persino a rendere intelligibile a se stessa la propria interiorità, oltre che a non esprimerla pienamente agli altri. Questo l'inglorioso e misero fallimento del progetto borghese-illuministico di "istruire" i "cittadini" di domani. L'idea borghese di una cultura come fattore di progresso morale e materiale che si risolve nei fatti in un'alienante e soverchiante pratica didattica nelle scuole e nelle università, che soffoca l'individuo senza realizzarlo, che lo rende un'astrazione vivente, inconsistente e priva di contenuto, che falsa e storpia la sua personalità. La conseguenza che trae Nieztsche è quella per cui questa culturalità crea uomini anonimi, facilmente esposti alle pressioni delle convenzioni sociali, ossia ai valori etici predominanti, sempre in balìa della moda del momento, mai se stessi e capaci di far valere la propria libera creatività. Uomini di questo tipo, astratti e senza identità, in virtù della loro malleabilità, possono essere con estrema facilità coartati e indotti a vivere secondo i fini imposti da pochi e predominanti interessi sociali costituiti.



"Da ultimo l'uomo moderno si porta in giro un'enorme quantità di indigeribili pietre del sapere, che poi all'occorrenza rumoreggiano puntualmente dentro di noi, come avviene nella favola. Con questo rumoreggiare si rivela la qualità più propria di quest'uomo moderno: lo strano contrasto di un interno a cui non corrisponde nessun esterno e di un esterno a cui non corrisponde nessun interno, un contrasto che i popoli antichi non conoscono. Il sapere che viene preso in eccesso, senza fame, anzi contro il bisogno, oggi non opera più come motivo che trasformi e spinga verso l'esterno, ma resta nascosto in un certo caotico mondo interno, che l'uomo moderno designa con strana superbia come l' "interiorità" a lui propria. Certo si dice poi che si ha il contenuto e che manca solo la forma; ma per ogni vivente questo è un contrasto del tutto innaturale. La nostra cultura moderna non è niente di vivo proprio per questo, che non può essere affatto concepita senza questo contrasto, vale a dire essa non è affatto una vera cultura, ma solo una specie di sapere intorno alla cultura; essa si ferma al pensiero della cultura, al sentimento della cultura, non ne viene fuori una risoluzione di cultura." p.32



In sintesi, il risultato nefasto di questa "culturalità", degenerazione dell'ideale borghese di una cultura nobilitante e capace di fare progredire moralmente e materialmente, è, secondo nietzsche, la creazione di "personalità deboli", scisse bipolarmente tra la pressione incontenibile della vita, che vuole affermarsi (ed essere possibilmente soddisfatta ed espressa tramite lo "studio" per intenderci), e la sua violenta repressione e frustrazione attraverso la "forma", ovvero a mezzo dei saperi incartapecoriti che devono essere inculcati tanto perchè si deve poter dire che i propri studenti e figli sono riconosciuti dalla buona società come uomini colti e istruiti, pronti a trovarsi un lavoro individualistico importante.

Ma che c'entra con oggi ? Gli studenti liceali di oggi non beneficiano per nulla di questi saperi posticci e anonimi che vengono loro propinati. Macinano pagine e pagine di libri e di appunti, sopportano lunghi ed estenuanti monologhi dei professori, sempre in tensione per un eventuale e prossimo esame. Sono in ansia e svogliati, annoiati, frustrati e alienati, perchè hanno smarrito ogni orizzonte di senso in ciò che fanno. Gli studenti odierni sono educati ad essere delle "personalità deboli" e attraverso questo loro lavoro macchinale e impassibile di memorizzazione massiccia, chiamato "studio", sono instradati verso l'indifferenza alla vita, verso l'impassibilità e l'apatia dinanzi alla bellezza, alla creatività e alla libertà.

Nietzsche a proposito delle "personalità deboli" e dei nefasti effetti di una cultura dell'imparaticcio sapere per il sapere:



"Giacchè qual mezzo resta ancora alla natura per dominare ciò che si stipa troppo abbondantemente ? Solo il mezzo di riceverlo con la maggiore facilità possibile per subito eliminarlo ed espellerlo di nuovo (io: la triste dinamica dello "studio" di oggi per cui per forza di cose si relega nel dimenticatoio tutto il sapere che si è ingollato freneticamente). Ne nasce un'abitudine a non prendere più sul serio le cose reali, ne nasce la "personalità debole", secondo la quale il reale, l'esistente, lascia solo una scarsa impressione; alla fine si diventa all'esterno sempre più indulgenti e comodi, e si allarga il pericoloso abisso tra contenuto e forma fino all'insensibilità per la barbarie, purchè la memoria venga eccitata di nuovo, purchè vi affluiscano sempre nuove cose degne di essere sapute, che possano essere sistemate nei cassetti di quella memoria." p.34



E se l'indifferenza generalizzata dei giorni nostri verso l'esistente, le sue contraddizioni, le sue assurdità e le sue ingiustizie, fosse causata dall'idea di matrice borghese-illuministica di cultura, di sapere ? E se l'apatia, tra le altre variabili, fosse data da queso tipo di indottrinamento sopradescritto, sottile e apparentemente indolore, consumato nei diversi livelli del sistema scolastico, nella fattispecie al liceo ? Un sapere, alienato rispetto allo studente, che lo domina e lo affligge, a tal punto che capita addirittura che questo scambi in modo aberrante il voto come fine dell'attività culturale scolastica. Il voto, anche per chi riesce a discostarsi da questa mentalità, spesso suscita irritazione o insoddisfazione laddove non premia e pone un discrimine tra chi ha lavorato e chi no. L'insegnamento è ridotto a smistamento di premi e di punizioni, espressi sotto forma di voti alti e di voti bassi, lo studente che trangugia nozioni passivamente per conquistare la sua pagella di voti alti.

Gli studenti sanno solo che devono sfacchinare volenti o nolenti per andare avanti e trovarsi un lavoro con i tanti attestati di "competenze" che riceveranno. Personalità deboli che possano anche adattarsi camaleonticamente non solo alle convenzioni sociali del momento, ma anche, come oggi e come vuole il governo, al tipo di lavoro da loro richiesto dal mercato. Un lavoro precario, intercambiabile, alienante, mobile e instabile. Una vita da uomini precari schiavi del mercato, grazie ad una politica istituzionale prona alle sue leggi scellerate. Prestate attenzione ogni volta che sentite parlare di "competenze", intese come fine a cui devono essere consacrate la scuola e l'università; laddove si parla di competenze, già si è mercificata e quantificata la cultura, la si è ridotta a quantitativo di "abilità" da possedere per essere pronti a svolgere certe alienanti e meccaniche attività lavorative. Non importa la cultura come educazione alla libera e creativa conoscenza ed espressione di sè stessi, come disposizione costante della vita a riconfigurare sè stessa avvalendosi pragmaticamente e attivamente dei saperi, affinchè essa possa contravvenire alle logiche predominanti che la vogliono alienata e indifferente. Oggi conta solo un' "istruzione" che induca "competenze" stereotipate per il mercato del lavoro che ne ha bisogno.

Noi oggi siamo eredi di quel progetto, di quell'idea di cultura che la modernità ha prodotto e incensato, nondimento propiziato per mezzo dei suoi sistemi scolastici. Niente progresso materiale e morale, solo la miseria di una cultura mortifera e fatiscente, quale quella della Palermo e dell'Italia dei giorni nostri, contro cui si spera che la categoria degli studenti prenda coscienza di dover lottare.

Si può concludere riprendendo un passo significativo dei "manoscritti economico-filosofici" di Karl Marx (ancora oggi ha qualcosa da dirci) che descrive in cosa consista in sintesi l'alienazione del lavoro. Ma se sostituissimo alle parole "lavoro" e "operaio", le parole "studio" e "studente" ? Il risultato sarebbe questo:



"E ora, in che cosa consiste l'alienazione dello studio ("del lavoro") ? Consiste prima di tutto nel fatto che lo studio ("il lavoro") è esterno allo studente ("all'operaio"), cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo studio ("lavoro") egli non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò lo studente ("l'operaio") solo fuori dallo studio ("dal lavoro") si sente presso di sè; e si sente fuori di sè nello studio ("nel lavoro"). E' a casa propria se non studia ("se non lavora"); e se studia ("e se lavora") non è casa propria. Il suo studio ("il suo lavoro") quindi non è volontario, ma costretto, è uno studio forzato ("un lavoro forzato"). Non è quindi un bisogno, ma solo un mezzo per il soddisfacimento di bisogni estranei. La sua estraneità si rivela chiaramente nel fatto che non appena viene meno la coazione fisica o qualsiasi altra coazione, lo studio ("il lavoro") viene fuggito come la peste. Lo studio esterno ("il lavoro esterno"), lo studio ("il lavoro") in cui l'uomo si aliena, è uno studio ("un lavoro") di sacrificio di sè stessi, di mortificazione." pgg. 74-75



Chi è d'accordo e chi no ? Da questo dovrebbe partire la contestazione degli studenti liceali di Palermo, e perchè no, magari di tutti gli studenti italiani, qualora questa condizione di alienazione a scuola sia condivisa. Il liceo, purtroppo, per come è configurato, finisce col farci credere che lo studio non serva a niente o che i saperi in generale siano inutili o d'intralcio. Beh, è così, con un'importante precisazione però: l'idea di "studio" e di utilizzo dei saperi di questo tipo di liceo è meschina e inutile, alla fine un vero e proprio intralcio per il risveglio delle coscienze sopite degli studenti. Ma come si è detto sopra, c'è anche un altro tipo di "studio" che si può fare, mosso da istanze di senso, problemi e interessi legati alla vita presente e orientati all'affrancamento della medesima da tutte le ingiustizie e le sue alienanti distorsioni. Abbandonare lo "studio" autoreferenziale e povero delle scuole di oggi e fare ricerche collettive, compattando la categoria degli studenti attorno ad un progetto di scuola alternativo che si identifichi in un tipo diverso di vita scolastica. Utilizzare il sapere, di cui si fa smercio e reificazione da parte degli insegnanti, per agire nel presente e trasformare radicalmente il proprio modo di vivere a scuola. In questo senso, si potrebbero far fruttare a pieno le assemblee di classe e d'istituto, come luoghi di discussione su certi aspetti di un possibile progetto in fieri, si potrebbe dare alla scuola istituzionale ciò che vuole, il voto, e nel contempo porre le premesse per un'altra scuola istituzionale che prima sia viva e attiva nella pratica quotidiana degli studenti uniti e poi sia pronta a istituzionalizzarsi. Oggi sono molte le scuole che sono state disoccupate, gli studenti sono tornati alla normale tiritera quotidiana, l'indifferenza e l'inerzia comuni stenderanno come ogni anno un velo pietoso sull' "occupazione" come forma sterile e rituale di contestazione. La speranza è che possano esserci un auspicabile risveglio e una scuola diversa, perché gli studenti al liceo, nella loro immaturità, hanno lo svantaggio di dover prendere coscienza da sé, essendo senza guide e senza maestri.

 


                                                                                                                                         Ugo Giarratano

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