giovedì 4 dicembre 2014


Nietzsche, la gioventù e la crisi della cultura moderna: un viaggio tra le miserie della scuola di ieri e di oggi, per capirci qualcosa sul fenomeno dell'occupazione.



"": tra virgolette sono inserite tutte le espressioni, le parole e i pensieri più articolati tratti dalle opere di Nietzsche, dall'uso comune o da altre opere pertinenti di pensatori scelti.

A Palermo il fenomeno dell'occupazione è oramai un evento che si ripete annualmente. Il sottoscritto ha vissuto tre occupazioni quando frequentava il liceo Cannizzaro, avvenute a distanza di due anni, rispettivamente al primo, al terzo e al quinto anno. La mia impressione di fondo è che l'occupazione non sia, come semplicisticamente si suole dire, solo una "perdita di tempo", un "modo per saltare giorni di scuola" o quant'altro, perchè, a mio avviso, è espressione di un certo disagio e di una certa insoddisfazione degli studenti nei confronti della propria vita scolastica. Il dramma è che oggi gli studenti, così come quando io ero al liceo, (in questo caso il riferimento va principalmente agli artefici dell'occupazione) non sono consapevoli della natura di quelli che sono i difetti radicali del sistema scolastico, rintracciabili direttamente nell'alienazione della giornaliera vita da scolari. L'occupazione è spesso e volentieri una confusa, disorientata e disorganica forma di contestazione, che però per me rimane genuina e spontanea nella sostanza. Poi potrà anche darsi che mi sbagli totalmente.


Lo scopo di questo articolo è di fare un po' di chiarezza e di offrire una personale chiave di lettura riguardo al fenomeno dell'occupazione, per capire perchè nasca. L'intento è di riprendere un autentico filosofo, forse l'unico o uno dei pochi che la modernità decadente, di cui noi oggi siamo figli, ci abbia lasciato. Questo filosofo è Friedrich Nietzsche. Può sembrare impossibile che possa stabilirsi un nesso tra Nietzsche e il problema del sistema liceale, di cui l'occupazione è la manifestazione critica. Ma come si cercherà di dimostare, il nesso c'è, eccome, e si estende anche al problematico sistema universitario. Quest'articolo è anche un modesto tentativo di dimostrare a chi crede che la filosofia o la cultura in generale siano astratte e inutili che possono essere qualcosa di diverso e darci l'aiuto necessario per avere le idee chiare circa la nostra vita in società, in tutti i suoi aspetti. Possono anche essere d'aiuto nel definire a mente i propri fini pratici e non subire passivamente le angherie che si soffrono quotidianamente.

Perchè Nietzsche e il liceo ? Cosa c'entra con i nostri problemi da studenti proni ad una cultura degenere che si riduce a mera e nozionistica "istruzione" ? Beh, Nietsche è stato uno studente di "Pforta", una prestigiosissima scuola privata tedesca della seconda metà dell'Ottocento che corrisponde al nostro liceo di oggi; è stato uno studente universitario, come molti di noi lo sono o lo saranno. Ha vissuto l'iter scolastico e ne ha esperito i difetti, le ingiustizie, l'alienante stile di vita. Il suo contributo consiste essenzialmente nell'aver criticato la misera e meschina idea di cultura sottesa al sistema scolastico-universitario del suo tempo. Ma dove sta ancora il nesso ? Nietzsche contesta con perspicacia i difetti di un certo modo di intendere la cultura nella pratica didattica del suo tempo, difetti che tristemente persistono tutt'oggi, sebbene il liceo e l'università di oggi non siano quelli della Germania della fine dell'ottocento. E queste deficienze del metodo odierno di insegnamento sono quelle contro cui si dovrebbe lottare, immaginando ed elaborando un'idea diversa di vita scolastica. Questo si dovrebbe fare, invece di occupare la scuola ritualmente, perdendosi in confuse e stravaganti rimostranze contro il governo ingiusto di turno o quant'altro.

Ma quali sono questi difetti che sono motivo di insoddisfazione perenne per lo studente liceale ?

La monotonia dello stile di vita scolastico, la noia delle lezioni, l'abbrutimento dovuto allo stare rinchiusi in casa a "studiare" (parola ormai diventata impronunciabile e discutibile, se non addiruttura da superare per tutto ciò che rappresenta) per i compiti o per le angoscianti verifiche orali e scritte del giorno dopo. E ancora, la votocrazia, la competizione in classe, il piccino nozionismo, lo stare sempre seduti per sorbirsi i monologhi dei professori. E si potrebbe proseguire all'infinito.

Ma cos'è che accomuna tutti questi aspetti ? Cosa rende sempre senza risposta domande del tipo: a te piace studiare ? Ti piace la scuola ?


Domande da cui dovrebbe partire tutta la contestazione degli studenti, domande apparentemente banali e sciocche, ma che invece sono di importanza capitale, perchè colgono il punto critico. A nessuno piace studiare o andare a scuola. Se si trova qualcuno a cui piace, non ci si imbatte mai in una sua piena e perfetta soddisfazione, in una sua lode entusiastica della scuola e dello studio, semmai si nota che si sofferma su altri aspetti che sanno più di contentini per salvare i ruderi fumanti di una scuola amorfa, come l'incontrare quotidianamente i propri compagni o i propri amici, con cui si cerca di allietare una vita scolastica essenzialmente alienante, che non realizza pienamente. E poi, se questa scuola fosse così apprezzata, come certuni sostengono, perchè mai tutti gli studenti all'unanimità ed euforicamente gioirebbero ogniqualvolta si presentano le vacanze o quando si ventila la possibilità di saltare giorni di scuola ? Perchè allora, se la scuola piacesse veramente, si dovrebbe fare di tutto per ottenere il beneplacito per un'assembea d'istituto o di classe, indette coll'unico fine di saltarsi ore di lezioni o un giorno di scuola ? E poi lo studio, a chi piace veramente ? Al massimo, si possono incontrare persone che ti dicono che a loro non dispiace dedicarvisi, ma mai si slanciano in elogi convinti. Perchè dovrebbe piacere uno studio che annoia mortalmente ? Uno studio che piace veramente potrebbe mai essere compatibile nel contempo con la noia ? Inutile ricordare i pianti delle proprie compagne, in cui ogni tanto mi sono cimentato, quando sono frustrate dal voto basso o dall'idea, magari, di non essere in grado di sopportare il fardello di un sistema miopemente e barbaramente votocratico. Anche qui sarebbe bello proseguire, perchè i casi esemplari probanti sono davvero tanti e devo ancora trovare qualcuno che abbia il coraggio sfrontato di dirmi che la vita scolastica è costellata di piene soddisfazioni, di felicità e di benessere. Con questo non si vuole dire che bisogna segregarsi in casa e vivere eremiticamente, semplicemente si vuole mettere in rilievo come la vita a scuola sia fatta per lo più di continui tentativi di andare avanti, di sopravvivere agli ostacoli di un insegnante autoritario o di una famiglia esigente, o di una pagella piena di voti bassi. La scuola e il momento dell'insegnamento sono strutturalmente un peso per lo studente, pur tenendo conto delle belle e limitate eccezioni che ci sono sempre (e mi riferisco a quegli insegnanti che con certi limiti si discostano dal modello egemone di insegnamento, eminentemente votocratico).

Dunque, come si diceva poc'anzi, Nietzsche critica radicalmente l'idea di cultura che è propiziata con fermezza negli ambienti scolastici e universitari del suo tempo. Qui di seguito, procederò a mettere in risalto gli illuminanti collegamenti che sussistono con l'idea di cultura del nostro tempo, limitatamente, nella fattispecie, all'Italia e alla città di Palermo. Dove se non nei licei (o anche nelle università, nelle scuole medie o elementari) si deve ricercare quel complesso di elementi dai quali si può desumere l'idea che oggi si ha della cultura, sia da parte del ceto dei professori che da parte dei genitori. A farne le spese in modo irreparabile, in altri termini, a vedere rovinate, infiacchite e invalidate le proprie vite sono gli studenti, tra i quali non mancano gli indifferenti, i confusi ribelli, i solerti adattati o gli apologeti del sistema.

A questo punto, quindi, bisogna rispondere alla domanda "che cos'è oggi la cultura ?" E questo lo si può fare misurandosi con l'ambiente liceale e la pratica didattica che qui viene portata avanti. Attraverso Nietzsche, e alcune opere in tal senso significative, si può afferrare quello che è un problema cruciale di cui noi siamo eredi, in cui ci siamo ritrovati e immersi da studenti liceali: il problema della perdita totale di senso e di valore per la propria vita dei saperi che ci vengono oramai inculcati nozionisticamente ed enciclopedicamente, non soltanto al liceo, ma a tutti i livelli dell'iter scolastico. Ormai i saperi si riducono a qualcosa di imparaticcio, di vuoto e di anonimo, si sono ridotti a dei contenitori assoluti di informazioni cui si attinge solo per il fine omogenenamente indotto e diffuso di trovare un lavoro ben retribuito e sicuro. I diversi saperi, che l'uomo ha fondato e concepito come delle vie diverse attraverso cui dare delle risposte alle proprie istanze di senso o ai propri interessi, sono ridotti ad uno strumentario puramente concettuale adoperato solo per conseguire un posto di lavoro sicuro e sopravvivere in una società che è polverizzata nel suo esasperato individualismo e nella sua incapacità di garantire delle prospettive di veramente libera progettazione delle proprie esistenze. Questo non significa che allora si deve desistere dal cercare un lavoro o abbandonare la scuola, si vuole porre l'accento sull'irrazionalità e il danno che sono insiti in queste idee di cultura e di lavoro, visti solo come strumenti a noi estranei. Difatti, la scuola e il lavoro non sono percepiti come parti integranti della propria vita, come forme espressive della vita stessa, ma solo come dei pesi, delle realtà viste, e a volte giustificate, come necessarie nella loro assoluta mancanza di qualsivolgia orizzonte di senso o di valore per la realizzazione e il benessere di sè (che non siano solo intesi in un senso grettamente economico). Il modo in cui si bramano con trepidazione le vacanze, estive e non, o i "giorni di disinfestazione", le assemblee di istituto o di classe, è il corrispettivo di grado inferiore del modo in cui sono agognate le ferie dal lavoratore medio di oggi. Questa brama di evitare giornate di lavoro o di scuola è l'indice di una vita alienante, che non soddisfa pienamente, che snerva, che stanca ed infiacchisce. Che valore può avere uno studio che è vissuto come costrizione e come fatica, come qualcosa da cui comunque è preferibile fuggire ? Che valore può avere un lavoro visto come onere da sopportare, come peso necessario per sopravvivere ? Un lavoro e uno studio fatti di frenesia quotidiana, di noia, di ansia. E che valore può avere questo "tempo libero" (ferie, vacanze e compagnia bella) che non è "libero" ma programmato, perchè vissuto come fuga dalla faticosa tiritera quotidiana o perchè prestabilito dall'altolocato potere pubblico o privato che sia ? Un tempo libero che, sia a scuola sia a lavoro, è visto come fuga dall'obbrobbrio quotidiano, un tempo libero che non è deciso da me (o da noi), ma che è prestabilito e centellinato dall'alto, un tempo libero che gli insegnanti concepiscono come tempo utile per svolgere i compiti arretrati o leggere i libri assegnati (quale colossale contraddizione). Comunque sia, anche nel migliore dei casi si ha la sensazione che sia lo studio che il lavoro non siano completamente motivo di realizzazione e di benessere personali.




Dunque, la scuola andrebbe pensata, in un'ottica agonico-critica di contestazione quale vorrebbe essere quella degli "occupanti", come una società in miniatura che risponde a quello che è considerato egemonicamente, dall'ideologia predominante, il tipo di uomo che deve uscirne. Un uomo alienato, abituato all'indifferente ed apatico adattamento a quelli che sono i fini predefiniti della società in cui vive: essenzialmente un lavoro altrettanto alienante che riproduca le stesse condizioni della vita scolastica. Il dramma di oggi è che si lotta, cosa che tristemente dovrò fare anch'io da aspirante laureato in filosofia, nonchè disoccupato e precario (in una facoltà in cui della filosofia si fa reificante mercimonio), per un lavoro da alienati, da precari, un contentino. Il massimo che la politica istituzionale sa e può offrirci, nel migliore dei casi, è un posto di lavoro anonimo a cui dobbiamo adattarci docilmente, col capo chino e magari anche con un misero senso di riconoscenza. Oggi si vogliono, al lavoro come a scuola, uomini competitivi e cinici, con spirito di adattamento e atteggiamento compromissorio, intercambiabili e pragmatici, produttivi, solerti ed efficienti (se poi, come il potere politico di turno vorrebbe fare, si consente alle imprese private di attuare dei corsi di avviamento al mercato del lavoro persino nei licei, ancora meglio!). Tutto questo perchè il "mercato del lavoro ce lo chiede".

Tornando a Nietzsche, la sua critica dell'idea di cultura è compendiabile in alcuni punti che possono essere sistemati organicamente addentrandosi tra le pagine bellissime delle sue opere giovanili.

A titolo di premessa, si possono illustrare alcuni cenni storici essenziali che rendono intelligibile il senso della critica di Nietzsche alla cultura del suo tempo, che è nella sostanza la cultura decadente della nostra epoca. Nietzsche vive nella Germania dei "dotti filistei", cresce temprato dalla dura disciplina della scuola privata di Pforta e deve dimenarsi costantemente, in veste di filologo, nel mondo accademico dell'università svizzera di Basilea, criticando l'astratta e formale "culturalità" dell'élite di specialisti e di professori universitari che concorrono alla definizione e alla preservazione dell'ideologia della società. Il suo bersaglio di critica è la cultura che questi dotti esprimono e sostengono a spada tratta, la cultura della "borghesia" (dell' "uomo moderno") che ha creduto, sin dai primordi del progetto illuministico, nel potere supremo della ragione, del sapere e della scienza. Più nello specifico, e qui si giunge al nesso con il problema in questa sede sollevato, la borghesia moderna ha creduto nel primato dell' "istruzione" come strumento fondamentale per compiere il destino inevitabile del progresso materiale e morale della società.
Ma che tipo di "istruzione" ? L'istruzione scolastica e universitaria, ma ancor prima quella primaria. L'istruzione cui oggi si fa riferimento, e il sistema educativo che abbiamo, sono il retaggio storico-ideologico che riflette nella sostanza, con le dovute e importanti differenze specifiche, quel progetto originario, ossia il progetto progressista illuministico-borghese del sette-ottocento. Nietzsche vive nella seconda metà dell'ottocento e incarna tutto il disagio e l'insoddisfazione dell'uomo moderno, dell'uomo decadente del suo tempo, nei confronti di un' "istruzione senza vivificazione". Noi viviamo nel XXI secolo e non siamo ancora riusciti a schermirci da quell'eredità ormai avvertita come un peso insopportabile.

Per fare un riepilogo d'insieme, si può dire che la nostra società, la società italiana, perpetua il tipo di uomo che vuole per il suo futuro; dall'età moderna ad oggi si è sviluppato in tutte le sue potenzialità il modello scolastico-universitario, rispondente all'ideale della borghesia illuminista, ossia l'ideale di un'istruzione alla portata progressivamente di tutti per migliorare moralmente e materialmente la società. Noi oggi, in Italia in particolare, dove permane la struttura scolastica delineata dal filosofo attualista fascista Giovanni Gentile, siamo eredi di quel modo di concepire il sapere e i suoi metodi di trasmissione. La rilevanza di Nietzsche in questo senso risiede nell'aver individuato certi difetti strutturali nel sistema scolastico-universitario tedesco del suo tempo che sono tutt'oggi nelle nostre scuole persistenti e che dimostrano l'insufficienza del progetto italiano, moderno, borghese, liberaldemocratico, di educazione dei "cittadini liberi ed eguali".

Ma che significa tutto questo ? Partiamo dalla "II considerazione inattuale" di Nietzsche che s'intitola "Sull'utilità e il danno della storia per la vita", perchè è qui che il filosofo si preoccupa del futuro dei giovani, mettendo in evidenza quanto siano repressivi e alienanti i metodi vigenti di insegnamento.


Sull'utilità e il danno della storia per la vitaNella prefazione Nietzsche è subito diretto e chiaro nello spiegare il problema trattato nel libro.


" "Del resto mi è odioso tutto ciò che mi istruisce soltanto, senza accrescere o vivificare immediatamente la mia attività". Con queste parole di Goethe, come un cetereum censeo energicamente espresso, può cominciare la nostra considerazione sul valore e la mancanza di valore della storia per la vita. In essa si esporrà infatti perchè un'istruzione senza vivificazione, perchè un sapere in cui l'attività s'infiacchisce, perchè la storia in quanto preziosa superfluità di conoscenza e in quanto lusso, ci debbano essere sul serio, secondo il detto di Goethe odiosi - per il fatto cioè che mancano ancora del più necessario, e che il superfluo è nemico del necessario."



Nietzsche critica, dunque, un certo tipo di "istruzione", perchè, secondo lui, nelle scuole e nelle università, questa ha ormai perduto ogni prospettiva di senso e di valore. E' un'istruzione astratta e formale, che non dice nulla al giovane studente, non lo soddisfa nè vivifica in nessun modo. Quante volte si legge nei volti degli studenti, siano al liceo o all'università, la noia soporifera che è in loro suscitata durante le lezioni da un modo di insegnare freddo e macchinale. Ci si deve passivamente sottoporre a lezioni frontali, articolate in monologhi unidirezionali fatti di nozioni da appuntare con affanno e frenetica precisione. Alla fine della lezione, figuriamoci durante, difficilmente si può essere consci dell'entità di ciò che il professore ha detto, del valore o del senso che possono avere per sè i suoi compassati e puntigliosi monologhi. Le lezioni diventano un lavoro in cui bisogna sistemare operativamente e formalmente ciò che ha detto il professore, per far sì che a casa risulti più facile ingoiare mnemonicamente tutte le nozioni che ci ha vomitato in faccia. L'idea del professore è di indurre negli studenti tutte queste informazioni per poi esaminarli con un voto reificante e omologante; poco importa della bontà di questo metodo, il proprio lavoro lo si è fatto con solerzia e finito un argomento si passa all'altro, perchè la tabella di marcia è più una corsa contro il tempo e poi ci sono le pagelline, le pagelle, i ricevimenti e bisogna avere un voto per dire che è tutto in regola. Lo studente si riduce a mezzo di comunicazione di contenuti che il professore vuole ripetuti pedissequamente, per filo e per segno. Il risultato è che lo studente non vede le lezioni come dei momenti di dialogo interpersonale libero e creativo con i propri compagni o con il professore, ma solo come delle seccanti necessità imposte che possono essere smorzate, al massimo, giocando o mandando messaggi col proprio telefonino, o facendo dei disegnini sui propri quaderni. Dunque un sapere formale e astratto da fagocitare meccanicamente, una cultura libresca che impone di mangiare tomi e tomi di nozioni, un sapere quantificato e mercificato nella forma del voto. L'alienazione che si fa strada, laddove non si fa ricerca costante per conoscere ed esprimere se stessi, rispondendo attraverso lo "studio" ai propri interessi o alle proprie istanze di senso, ma si memorizzano passivamente e meschinamente tutte le nozioni che ci sono inculcate per il voto. Il voto come feticcio che soppianta il valore e il senso che la cultura dovrebbe avere a scuola, non si studia per se stessi, ma per il voto. Anzi, quando si studia per se stessi, curandosi solo di quei saperi e di qelle problematiche che interessano, si viene duramente rimbrottati e riportati all'ordine ora dalla famiglia ora dal gretto professore di turno. Oppure, ove il sistema funziona pienamente, si smarrisce totalmente la ragion d'essere della cultura e dei saperi, disprezzandoli o facendone un uso mediato, funzionale a quella che diviene l'aberrante e sinistra brama di conseguire un voto alto o sempre più alto. Tutto per il voto, nulla per se stessi. Ciò che si studia diviene assolutamente indifferente, perchè ciò che è importante e arreca un subdolo e perverso piacere è il voto alto. Col voto basso si viene riportati all'ordine, si viene messi in riga, si fa capire allo studente che deve fare di più, che deve essere più produttivo ed efficiente nel fagocitare e incamerare tutto il sapere imparaticcio che è a lui trasmesso. Chi non ce la fa, chi prende voti bassi, chi non fa i compiti è solo un lavativo, un nullafacente, un discolo o un melenso perditempo. Chi ha voti alti è un "genio", una persona "intelligente", uno a cui guardare, uno che è sulla buona strada. In tutto questo sistema e modo di vedere si oblia completamente il senso della cultura, il suo valore inestimabile di pratica di vita. Essa diventa solo un possesso formale e vuoto, inconsistente e insignificante, che si riflette in modo del tutto apparente e artificioso nel voto.

Ma che fine fanno questi contenuti, rimane davvero qualcosa allo studente di tutto questo sapere da trangugiare con ansia e frenetica preoccupazione ? Cosa ne è dello studente come persona ?

Nietzsche riteneva che questo tipo di cultura, sciorinata nelle scuole e nelle università, plasmasse delle "personalità deboli", incapaci di percepirsi nell'unità complessiva e integrale del proprio essere, sempre scisse in senso bipolare tra forma e vita, "esteriorità" ed "interiorità". Delle persone fragili ed insicure, prive di identità, colte nell'incapacità marchiana di esprimere se stesse in modo schietto e sincero agli altri, perchè oppresse da un sapere alienato da trangugiare, da una cultura estranea, ridotta a teoreticistica "culturalità", a orpello da esibire come segno di prestigio sociale. Una personalità debole che non riesce persino a rendere intelligibile a se stessa la propria interiorità, oltre che a non esprimerla pienamente agli altri. Questo l'inglorioso e misero fallimento del progetto borghese-illuministico di "istruire" i "cittadini" di domani. L'idea borghese di una cultura come fattore di progresso morale e materiale che si risolve nei fatti in un'alienante e soverchiante pratica didattica nelle scuole e nelle università, che soffoca l'individuo senza realizzarlo, che lo rende un'astrazione vivente, inconsistente e priva di contenuto, che falsa e storpia la sua personalità. La conseguenza che trae Nieztsche è quella per cui questa culturalità crea uomini anonimi, facilmente esposti alle pressioni delle convenzioni sociali, ossia ai valori etici predominanti, sempre in balìa della moda del momento, mai se stessi e capaci di far valere la propria libera creatività. Uomini di questo tipo, astratti e senza identità, in virtù della loro malleabilità, possono essere con estrema facilità coartati e indotti a vivere secondo i fini imposti da pochi e predominanti interessi sociali costituiti.



"Da ultimo l'uomo moderno si porta in giro un'enorme quantità di indigeribili pietre del sapere, che poi all'occorrenza rumoreggiano puntualmente dentro di noi, come avviene nella favola. Con questo rumoreggiare si rivela la qualità più propria di quest'uomo moderno: lo strano contrasto di un interno a cui non corrisponde nessun esterno e di un esterno a cui non corrisponde nessun interno, un contrasto che i popoli antichi non conoscono. Il sapere che viene preso in eccesso, senza fame, anzi contro il bisogno, oggi non opera più come motivo che trasformi e spinga verso l'esterno, ma resta nascosto in un certo caotico mondo interno, che l'uomo moderno designa con strana superbia come l' "interiorità" a lui propria. Certo si dice poi che si ha il contenuto e che manca solo la forma; ma per ogni vivente questo è un contrasto del tutto innaturale. La nostra cultura moderna non è niente di vivo proprio per questo, che non può essere affatto concepita senza questo contrasto, vale a dire essa non è affatto una vera cultura, ma solo una specie di sapere intorno alla cultura; essa si ferma al pensiero della cultura, al sentimento della cultura, non ne viene fuori una risoluzione di cultura." p.32



In sintesi, il risultato nefasto di questa "culturalità", degenerazione dell'ideale borghese di una cultura nobilitante e capace di fare progredire moralmente e materialmente, è, secondo nietzsche, la creazione di "personalità deboli", scisse bipolarmente tra la pressione incontenibile della vita, che vuole affermarsi (ed essere possibilmente soddisfatta ed espressa tramite lo "studio" per intenderci), e la sua violenta repressione e frustrazione attraverso la "forma", ovvero a mezzo dei saperi incartapecoriti che devono essere inculcati tanto perchè si deve poter dire che i propri studenti e figli sono riconosciuti dalla buona società come uomini colti e istruiti, pronti a trovarsi un lavoro individualistico importante.

Ma che c'entra con oggi ? Gli studenti liceali di oggi non beneficiano per nulla di questi saperi posticci e anonimi che vengono loro propinati. Macinano pagine e pagine di libri e di appunti, sopportano lunghi ed estenuanti monologhi dei professori, sempre in tensione per un eventuale e prossimo esame. Sono in ansia e svogliati, annoiati, frustrati e alienati, perchè hanno smarrito ogni orizzonte di senso in ciò che fanno. Gli studenti odierni sono educati ad essere delle "personalità deboli" e attraverso questo loro lavoro macchinale e impassibile di memorizzazione massiccia, chiamato "studio", sono instradati verso l'indifferenza alla vita, verso l'impassibilità e l'apatia dinanzi alla bellezza, alla creatività e alla libertà.

Nietzsche a proposito delle "personalità deboli" e dei nefasti effetti di una cultura dell'imparaticcio sapere per il sapere:



"Giacchè qual mezzo resta ancora alla natura per dominare ciò che si stipa troppo abbondantemente ? Solo il mezzo di riceverlo con la maggiore facilità possibile per subito eliminarlo ed espellerlo di nuovo (io: la triste dinamica dello "studio" di oggi per cui per forza di cose si relega nel dimenticatoio tutto il sapere che si è ingollato freneticamente). Ne nasce un'abitudine a non prendere più sul serio le cose reali, ne nasce la "personalità debole", secondo la quale il reale, l'esistente, lascia solo una scarsa impressione; alla fine si diventa all'esterno sempre più indulgenti e comodi, e si allarga il pericoloso abisso tra contenuto e forma fino all'insensibilità per la barbarie, purchè la memoria venga eccitata di nuovo, purchè vi affluiscano sempre nuove cose degne di essere sapute, che possano essere sistemate nei cassetti di quella memoria." p.34



E se l'indifferenza generalizzata dei giorni nostri verso l'esistente, le sue contraddizioni, le sue assurdità e le sue ingiustizie, fosse causata dall'idea di matrice borghese-illuministica di cultura, di sapere ? E se l'apatia, tra le altre variabili, fosse data da queso tipo di indottrinamento sopradescritto, sottile e apparentemente indolore, consumato nei diversi livelli del sistema scolastico, nella fattispecie al liceo ? Un sapere, alienato rispetto allo studente, che lo domina e lo affligge, a tal punto che capita addirittura che questo scambi in modo aberrante il voto come fine dell'attività culturale scolastica. Il voto, anche per chi riesce a discostarsi da questa mentalità, spesso suscita irritazione o insoddisfazione laddove non premia e pone un discrimine tra chi ha lavorato e chi no. L'insegnamento è ridotto a smistamento di premi e di punizioni, espressi sotto forma di voti alti e di voti bassi, lo studente che trangugia nozioni passivamente per conquistare la sua pagella di voti alti.

Gli studenti sanno solo che devono sfacchinare volenti o nolenti per andare avanti e trovarsi un lavoro con i tanti attestati di "competenze" che riceveranno. Personalità deboli che possano anche adattarsi camaleonticamente non solo alle convenzioni sociali del momento, ma anche, come oggi e come vuole il governo, al tipo di lavoro da loro richiesto dal mercato. Un lavoro precario, intercambiabile, alienante, mobile e instabile. Una vita da uomini precari schiavi del mercato, grazie ad una politica istituzionale prona alle sue leggi scellerate. Prestate attenzione ogni volta che sentite parlare di "competenze", intese come fine a cui devono essere consacrate la scuola e l'università; laddove si parla di competenze, già si è mercificata e quantificata la cultura, la si è ridotta a quantitativo di "abilità" da possedere per essere pronti a svolgere certe alienanti e meccaniche attività lavorative. Non importa la cultura come educazione alla libera e creativa conoscenza ed espressione di sè stessi, come disposizione costante della vita a riconfigurare sè stessa avvalendosi pragmaticamente e attivamente dei saperi, affinchè essa possa contravvenire alle logiche predominanti che la vogliono alienata e indifferente. Oggi conta solo un' "istruzione" che induca "competenze" stereotipate per il mercato del lavoro che ne ha bisogno.

Noi oggi siamo eredi di quel progetto, di quell'idea di cultura che la modernità ha prodotto e incensato, nondimento propiziato per mezzo dei suoi sistemi scolastici. Niente progresso materiale e morale, solo la miseria di una cultura mortifera e fatiscente, quale quella della Palermo e dell'Italia dei giorni nostri, contro cui si spera che la categoria degli studenti prenda coscienza di dover lottare.

Si può concludere riprendendo un passo significativo dei "manoscritti economico-filosofici" di Karl Marx (ancora oggi ha qualcosa da dirci) che descrive in cosa consista in sintesi l'alienazione del lavoro. Ma se sostituissimo alle parole "lavoro" e "operaio", le parole "studio" e "studente" ? Il risultato sarebbe questo:



"E ora, in che cosa consiste l'alienazione dello studio ("del lavoro") ? Consiste prima di tutto nel fatto che lo studio ("il lavoro") è esterno allo studente ("all'operaio"), cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo studio ("lavoro") egli non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò lo studente ("l'operaio") solo fuori dallo studio ("dal lavoro") si sente presso di sè; e si sente fuori di sè nello studio ("nel lavoro"). E' a casa propria se non studia ("se non lavora"); e se studia ("e se lavora") non è casa propria. Il suo studio ("il suo lavoro") quindi non è volontario, ma costretto, è uno studio forzato ("un lavoro forzato"). Non è quindi un bisogno, ma solo un mezzo per il soddisfacimento di bisogni estranei. La sua estraneità si rivela chiaramente nel fatto che non appena viene meno la coazione fisica o qualsiasi altra coazione, lo studio ("il lavoro") viene fuggito come la peste. Lo studio esterno ("il lavoro esterno"), lo studio ("il lavoro") in cui l'uomo si aliena, è uno studio ("un lavoro") di sacrificio di sè stessi, di mortificazione." pgg. 74-75



Chi è d'accordo e chi no ? Da questo dovrebbe partire la contestazione degli studenti liceali di Palermo, e perchè no, magari di tutti gli studenti italiani, qualora questa condizione di alienazione a scuola sia condivisa. Il liceo, purtroppo, per come è configurato, finisce col farci credere che lo studio non serva a niente o che i saperi in generale siano inutili o d'intralcio. Beh, è così, con un'importante precisazione però: l'idea di "studio" e di utilizzo dei saperi di questo tipo di liceo è meschina e inutile, alla fine un vero e proprio intralcio per il risveglio delle coscienze sopite degli studenti. Ma come si è detto sopra, c'è anche un altro tipo di "studio" che si può fare, mosso da istanze di senso, problemi e interessi legati alla vita presente e orientati all'affrancamento della medesima da tutte le ingiustizie e le sue alienanti distorsioni. Abbandonare lo "studio" autoreferenziale e povero delle scuole di oggi e fare ricerche collettive, compattando la categoria degli studenti attorno ad un progetto di scuola alternativo che si identifichi in un tipo diverso di vita scolastica. Utilizzare il sapere, di cui si fa smercio e reificazione da parte degli insegnanti, per agire nel presente e trasformare radicalmente il proprio modo di vivere a scuola. In questo senso, si potrebbero far fruttare a pieno le assemblee di classe e d'istituto, come luoghi di discussione su certi aspetti di un possibile progetto in fieri, si potrebbe dare alla scuola istituzionale ciò che vuole, il voto, e nel contempo porre le premesse per un'altra scuola istituzionale che prima sia viva e attiva nella pratica quotidiana degli studenti uniti e poi sia pronta a istituzionalizzarsi. Oggi sono molte le scuole che sono state disoccupate, gli studenti sono tornati alla normale tiritera quotidiana, l'indifferenza e l'inerzia comuni stenderanno come ogni anno un velo pietoso sull' "occupazione" come forma sterile e rituale di contestazione. La speranza è che possano esserci un auspicabile risveglio e una scuola diversa, perché gli studenti al liceo, nella loro immaturità, hanno lo svantaggio di dover prendere coscienza da sé, essendo senza guide e senza maestri.

 


                                                                                                                                         Ugo Giarratano

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