sabato 27 dicembre 2014



Cosa mangiamo a tavola ? Dal cibo dei supermercati risalendo sino alle tecniche di produzione agricola della "Green Revolution".



Norman Borlaug: il padre maledetto della "Green Revolution" ("Rivoluzione verde").
La "rivoluzione verde" è la denominazione sotto cui è passato alla storia quel nuovo paradigma di produzione agricola che è stato teorizzato dall'agronomo americano Norman Borlaug, insignito per la sua opera del premio Nobel nel 1970.
La fonte di riferimento per capire in cosa consista questa rivoluzione è il discorso pronunciato da Borlaug stesso nel 2000 in commemorazione della cerimonia del 70.

Possiamo dire subito senza esitazione che la "rivoluzione verde" non ha un piffero di "verde", cioè non rispetta per niente l'ambiente naturale nè nelle sue teorizzazioni nè nelle sue pratiche fondamentali (come invece la denominazione capziosamente vorrebbe far credere). Il modello di coltivazione agricola che ha affermato, infatti, prevede l'applicazione di tutta una serie di scoperte scientifiche, avvenute nell'800 (di cui si parlerà), all'utilizzo agricolo del terreno. In sostanza la rivoluzione verde ha sancito l'industrializzazione dell'ambito produttivo-distributivo agricolo, automatizzandolo e sottoponendolo a piani scientifici di programmazione. Sotto il profilo teorico l'agricoltura diventa una scienza (non a caso ancora oggi all'università si insegnano le "scienze agrarie", tra cui l'agronomia di cui Borlaug è stato un infausto pioniere), inoltre smette di essere una pratica di tipo familiare ed eminentemente empirica, per dare spazio ad una gestione industriale, multinazionale e burocratica, più attenta alla produttività, all'efficienza e all'esportazione, dunque in ultima analisi al profitto illimitato.

E' fondamentale avere le idee chiare sull'essenza della rivoluzione verde, perchè ciò che noi mangiamo oggi (ciò che compriamo nei supermercati) è coltivato secondo i criteri "verdi" della rivoluzione di Borlaug, di cui si parlerà subito, che sono stati denunciati come cancerogeni, e nocivi più in generale, da una comunità internazionale di esperti, i quali nel 2004 hanno stilato e presentato l' "appello di Parigi" contro gli effetti deleteri dell'inquinamento chimico.

Quali sono dunque queste nuove tecniche agricole ? Queste tecniche prevedono la preliminare selezione e manipolazione genetica dei semi in laboratorio (il cui uso è concesso su autorizzazione da apposite agenzie che si occupano della cura di quelli che sono chiamati OGM), l'automatizzazione sistematica dell'intero ciclo produttivo-distributivo (quindi l'uso di macchine), l'utilizzo pervasivo di concimazione chimica, quindi di diserbanti, fertilizzanti inorganici, antinfestanti, pesticidi e così via. Si aggiungono la pianificazione razionale delle rese e del lavoro, l'uso cospicuo di combustibili fossili (petrolio) per le macchine e il miglioramento dei metodi di irrigazione. Come si capisce nel suo discorso, per Borlaug la crescita demografica non va messa in discussione, anzi deve essere priva di limiti e accompagnata da un sistema produttivo agricolo sempre più efficiente e prolifico. Presupposto che è da pazzi totali se si pensa che il nostro pianeta è finito, con risorse altrettanto finite, e non può sostenere questo gravoso peso demografico, senza tenere conto dei risvolti altamente problematici di una crescita demografica sfrenata sul piano urbano e correlativamente psicologico-sociologico. In più Borlaug non considera gli effetti nocivi che la sua tecnologia agricola provoca: diminuzione delle proprietà qualitative dei prodotti (sapore, profumo, colore ecc.), squilibri ecologici legati all'immisione di specie transgeniche, inquinamento chimico cancerogeno dovuto all'uso di concimi inorganici e via dicendo (si potrebbe continuare). Insomma, Il punto di vista scientifico che Borlaug, da esperto del settore, vuole far valere, relativamente al problema mondiale dello scompenso tra risorse alimentari e uomini, è volto ad accompagnare la crescita esponenziale della popolazione o, se vogliamo, a prendere delle misure puramente contingenti e superficiali che non attenzionano il problema alla radice, focalizzandosi ad esempio sull'altra variabile non messa in discussione: l'aumento incontrollato della popolazione. Nel novecento, difatti, è avvenuto il più esponenziale e accelerato incremento della popolazione mondiale della storia: da un miliardo e mezzo circa, ai primordi del 900, ai sette miliardi circa di oggi. La "Green Revolution" è divenuta un processo globale di industrializzazione dell'agricoltura in virtù del suo progetto, apparentemente di successo e indolore, di armonizzazione di questo scompenso che si è presentato più volte nella storia della civiltà occidentale. Potrebbe forse anche essere l'ultima parola della scienza che dall'800 a oggi ha prevaricato ogni altra prospettva di discorso, profilandosi come presunto sapere onnipotente e supremo, capace di affrancare l'uomo dalle necessità naturali.

Quando e come si è svolta la "Green Revolution" ?


Monoculture farmer spraying fields with fertilizer.Tutto è iniziato nel 1943 in Messico, dove Borlaug lavorava come agronomo e genetista per la "Rockefeller foundation" (fondazione del capostipite John Davison Rockefeller che fino al 1911 deteneva il monopolio del mercato del petrolio; interessante sapere anche chi finanziò la "Green Revolution"...) che, insieme col governo nazionale, finanziava un progetto di ricerca scientifica sulla manipolazione genetica dei semi di mais, di patate, di fagioli e di grano ("Cooperative Mexican Government-Rockefeller Foundation agricultural program"). La finalità ? Riuscire a rendere il Messico autosufficiente nella produzione di grano che era molto scarso al tempo. Borlaug vi riuscì incrociando in laboratorio una specie di grano giapponese, bassa, una americana, capace di spargere attorno molti semi, e una serie di specie locali molto resistenti al clima indigeno e agli agenti patogeni del luogo. Ne vennero fuori diverse varietà che furono classificate come "grano nano". Questo tipo di grano non cresceva troppo in altezza, dunque non si piegava su di sè una volta cresciuto soffocando  se stesso e le piante vicine, rilasciava molti più semi e resisteva molto bene al clima e agli agenti patogeni locali. Con la nuova agricoltura della genetica il Messico si dotò del "grano nano" ed ebbe rese stratosferiche, riuscendo addirittura a divenire un importante esportatore da che era un paese povero di frumento. Questo metodo di produzione fu portato in India, in Pakistan e nelle Filippine negli anni '60-'70. Negli anni '80 approdò anche in Cina che si distinse come l'esperienza di incubazione più esplosiva e fortunata, visto che il paese divenne il primo produttore mondiale di cibo. L'espansione di questa nuova metodologia di produzione agricola (la "science-based agricultural technology") fu veicolata da istituzioni internazionali e sovranazionali quale la FAO e dagli USA che l'avevano inventata e sperimentata in casa propria. La giustificazione ideologica era "l'impegno umanitario" verso i paesi cosiddetti "sottosviluppati" e "in via di sviluppo", la realtà è stata ed è tutt'oggi un'altra...

Ma facciamo un passo indietro e cerchiamo di comprendere dove cominciò la Rivoluzione Verde e come. Quali furono le sue radici ottocentesche, che risalgono ad un certa razionalità, ad un certo egemone modo di pensare e di vedere il mondo, quello tecnico-scientifico ? Borlaug stesso si preoccupa di ricostruire storicamente il processo di gestazione della Rivoluzione Verde, individuando tutte le premesse del caso. Questa rivoluzione, che si concretizza essenzialmente in una compiuta industrializzazione tecnico-scientifica dell'agricoltura, si inscrive all'interno dell'ideologia borghese ottocentesca che credeva follemente e incontrovertibilmente nella supremazia della scienza come strumento di dominio sulla natura e di elevazione dell'uomo a signore del pianeta. Diversi furono i fili ottocenteschi che condussero alla sistematizzazione conclusiva nella forma datale da Borlaug.

Photo:John Bennet Lawes, aged c.45 - mid 1850s
Sir John Bennet Lawes
Nel 1842 Sir John Bennet Lawes produce il superfosfato di calcio, sostanza fondamentale con la quale si darà luogo ai primi fertilizzanti chimici.

Negli anni '40 dell'800 numerose navi sciamano verso i porti nordamericani ed europei trasportando i nitrati cileni, fondamentali per la fertilizzazione inorganica del terreno. Sia i superfosfati che i nitrati sono usati ancora oggi nella coltivazione del cibo che mangiamo.

Per tutto l'800 le acquisizioni di Darwin sull'evoluzione delle specie e di Mendel sull'ereditarietà dei geni (queste ultime furono note solo a cavallo tra 800 e 900) posero le basi per la manipolazione genetica dei semi.

Justus Von Liebig

Dalla metà dell'800 Justus Von Liebig e Jean-Baptiste Baussingault gettano le fondamenta teoriche per la "chemistry soil" ("chimica del terreno") e per la "crop agronomy" ("agronomia del raccolto"). Con loro avviene la configurazione scientifica della pratica agricola, da sempre stata un'attività empirica.

Questi sono i quattro fili da tenere a mente, che poi si annoderanno compiutamente con Borlaug e la "Green Revolution".

Nella prima metà del 900 queste premesse incominciano a maturare. Sino ai primi anni del nuovo secolo era rimasto predominante l'impiego di fertilizzanti organici, tuttavia si deve a uno scienziato tedesco in particolare la formulazione della procedura sperimentale per la produzione dell'ammoniaca, da cui, dopo la II guerra mondiale, si estrarrà il nitrogeno per i fertilizzanti inorganici: il suo nome tristemente noto (forse) è Fritz Haber. Era un chimico e lavorò durante la prima guerra mondiale alla produzione dei gas tossici, al cui uso esortò e convinse lo Stato Maggiore Tedesco. Sua è infatti la "costante Haber" che indica la dose minima di gas letale per l'uomo. Il suo contributo si fa sentire anche durante la seconda guerra mondiale, sebbene venga scacciato malamente da Hitler, perchè ebreo, ad un colloquio di mediazione che gli era stato organizzato dall'amico Max Planck. Haber infatti è colui che fomula il procedimento di composizione dell'acido cianidrico (meglio noto come Zyclon B, il gas usato con gli ebrei nei campi di concentramento). Ma non finisce qui. Haber nel 1909 aveva scoperto l'ammoniaca e nel 1918 sarà insignito del premio nobel, ma nel 1913 la sua formula fu perfezionata e brevettata da Carl Bosh che presiedeva il consiglio di amministrazione della BASF, quella che poi passerà alla storia con il nome infausto di IG FARBHEN, l'industria che nella seconda guerra mondiale produrrà il suddetto Zyclon B per lo sterminio degli ebrei. La BASF, tra l'altro, esiste ancora. E' curioso notare come siano così duttili le industrie e accorti gli imprenditori che le gestiscono, durante le due guerre la BASF usò il nitrogeno per la produzione di esplosivi, dal secondo dopoguerra per la produzione di fertilizzanti inorganici. Ma Borlaug non sembra essere interessato a scavare sotto l'apparente trionfalità del processo novecentesco inarrestabile di affermazione dei fertilizzanti chimici. In fondo è uno scienziato, nel suo discorso si preoccupa più di dati, tabelle, numeri, dimenticando la storia tragica e i volti umani delle persone che stanno dietro alle vicende di cui parla.
Dunque la "Green Revolution" è OGM, concimazione chimica, automatizzazione, efficientizzazione dei sistemi di irrigazione, marginalizzazione pressochè totale dell'uomo dall'attività agricola, industrializzazione del lavoro che viene pianificato, razionalizzato e specializzato, riduzione delle persone acquirenti a "consumatori" di merci. Tutto per ovviare allo scompenso tra risorse alimentari insufficienti e uomini da sfamare (in particolare nei paesi del "terzo mondo"). Oggi però si continua a fare agricoltura in questo modo e numerossime sono le contestazioni degli ambientalisti e dei cittadini che si sono associati per ricollegarsi coi produttori locali che coltivano secondo i principi della "bioetica" o del "biologico certificato". Il fine è di mangiare sano, di restituire l'agricoltura alla "persona" e di armonizzare la propria esistenza con l'ambiente naturale; in questo modo si intaccano gli interessi degli agricoltori "convenzionali" e delle multinazionali che operano nel settore alimentare che hanno come esclusivo fine il profitto autoreferenziale e non il soddisfacimento salubre dei bisogni di sussistenza dei "consumatori". Questi sistemi di autogestione economica provengono dal basso e manifestano l'idea di fare del cibo (ma non solo...) non una merce, per il profitto di pochi industriali che lucrano seguendo la logica alienante e nociva della globalizzazione, bensì un "bene comune", l'intermezzo attraverso cui si valorizza una relazione interpersonale di dialogo e di piena convivenza.

Oggi, sin dal volgere del XXI secolo, si sono strutturati diversi sistemi paralleli di gestione delle risorse agricole, alternativi a quelli della "Green Revolution".

I GAS, i Gruppi di Acquisto Solidale, che furono messi in atto nel 1994 a Fidenza (Italia) da un gruppo di famiglie che volle raccordarsi direttamente coi produttori locali, arrivando a pubblicare nel 1996 un libro ispirato ai principi del "consumo critico" ("Guida al consumo critico" edito dal Centro Nuovi Modelli di Sviluppo). Nel 1997 naque anche "retegas" la rete dei gruppi di acquisto solidale.

C'è anche il sistema degli orti urbani condivisi, molto diffuso. Ci sono realtà più avanzate e radicali che optano per la costituzione di nuove forme di convivenza diverse dal modello cittadino-metropolitano con tutto ciò che esso implica: "Agrivillaggi", "Ecovillaggi" (in Italia c'è la RIVE, Rete Italiana dei Villaggi Ecologici, costituitasi nel 1996 per coordinare tutti gli ecovillaggi disseminati per l'Italia; l'ideatore degli ecovillaggi è David Holmgren, teorico tra l'altro della pratica della permacultura), "Comunità neorurali" e una miriade sterminata di altri modelli di convivenza. Ci sono anche le "Città di Transizione" che vogliono invece riconvertire il centro urbano metropolitano in strutture comunitarie "resilienti" di autogestione delle risorse, l'artefice di questa nuova realtà è Rob Hopkins che l'ha resa autonomamente funzionante a Kinsale in Irlanda e a Totnes in Inghilterra, tra il 2005 e il 2006. Oggi queste "transition towns" si sono moltiplicate vertiginosamente e si è costituito addirittura un organismo internazionale di raccordo e di diffusione in tutto il mondo di questo modello. In Italia sono tante le realtà urbane "in transizione". Si può anche parlare del fenomeno degli "wwoofers", ovvero di coloro (giovani in particolare) che accettano l'intermediazione dell'associazione WWOOF, con le sue filiali in tutti i paesi europei, per fare svariate esperienze pratiche, in aziende biologiche o in comunità neorurali e così via, volte all'apprendimento di modi alternativi di fare agricoltura: comunitari, biologici, interpersonali e naturali.

Oggi, prossimi alla fine del 2014, possiamo dire che la la via verso lo dissoluzione totale dell'agricoltura modello "Green Revolution" è un po' più definita e spianata rispetto a prima, in barba al buon Norman Borlaug che era convinto con la sua scienza genetica e agronomica di aver risolto il problema dello scompenso tra uomini e risorse alimentari. Borlaug è deceduto nel 2009 per via di un cancro, chissà se questo non fu dovuto agli innumerevoli effetti cancerogeni delle pratiche della "Rivoluzione Verde", tanto denunciati da ambientalisti e da comunità di medici esperti (il succitato appello di Parigi del 2004). Sarebbe il colmo dello scienziato che credeva con la scienza di aver sconfitto la natura con le sue pressanti necessità, salvo poi vedersi solo e gabbato lui stesso dalla sua incontenibile potenza.



La razionalità tecnico-scientifica e la tecnologia: l'economia non come vita ma come scienza matematizzante per dotti universitari.

 
In fondo questo è l'ennesimo fallimento della scienza che ha inquadrato il problema da una prospettiva parziale e unilaterale, facendo degli uomini e delle risorse agricole soltanto delle variabili nel suo grafico matematico-sperimentale da laboratorio. In realtà dietro l'economia, agricola in questo caso, ci stanno tanti altri fattori fondamentali che una certa superba prospettiva tecnico-scientifica, potremmo dire più propriamente tecnologica, eclissa o stigmatizza. Questi fattori fanno capo all'idea per cui l'economia è originariamente nata come un'attività comunitaria realizzantesi nell'autogestione corale delle risorse, adoperate al fine di soddisfare i bisogni primari di sussistenza della collettività (vedremo questa sua origine attraverso la figura di Aristotele). "Economia" etimologicamente proviene dal lessico aristotelico che ne parla tra l'altro in un'opera incentrata sul tema della "politica". Viene dalla combinazione delle due parole greche "οἶκος" ("casa") e "νόμος" ("norma"), per cui significa letteralmente "legge, o norma, della casa", ovvero "cura dei beni familiari, del patrimonio fondiario". Con questo si vuole dire che l'economia è un'attività essenzialmente pratica, volta al soddisfacimento dei propri bisogni; dal secondo ottocento sino ad oggi, invece, l'economia è diventata "scienza", non si parla più di vita economica, o anche di vita politica, sociale, giuridica ecc., ma di "scienze". L'economia è stata scientifizzata a cavallo tra 800 e 900, astraendosi dalla realtà pratica, dal "mondo della vita", divenendo una scienza matematizzante e sperimentale, imbottita di modelli simbolici, di costanti, di formule e di ciarpame vario; nel contempo si è radicato nel senso comune il preconcetto per cui non si può fare economia, così come politica, se non si hanno le competenze di "scienza giuridica", di "scienza politica" o di "scienza economica". Insomma, l'industrializzazione burocratizzante e tecnico-scientifica dell'economia agricola, radicata nell'800, ha trovato correlativamente giustificazione ideologica nel processo di scientificizzazione matematizzante della rispettiva forma di sapere: ed ecco che ancora oggi da allora si parla di "scienza economica", di "scienze agrarie", così come di scienze storiche, di scienze filosofiche, ambientali e forestali, e così via. L'istituzionalizzazione burocratica, impersonale e astratta dal tessuto sociale, dei valori/beni comuni dell'economia, della politica, dei cosiddetti "servizi sociali" (istruzione, sanità ecc.) e la riduzione di queste attività di natura originariamente pratica a "scienze" insegnate all'università sono andate di pari passo. Oggi si insegnano all'università queste scienze, obliando la loro radice vitalistico-pratica nonchè comunitaria che rende loro giustizia, e, riducendole ad uno strumentario amorfo e tecnicistico di concetti operativi, si mira ad indottrinare gli studenti ai principi di una ordinaria amministrazione burocratica di tutti questi beni, quali l'economia, la politica ecc., ridotti a servizi/merci da erogare. L'università di oggi ci prepara per il settore terziario-impiegatizio, il cosiddetto settore del "lavoro intellettuale", dei "colletti bianchi", che ha ormai surclassato da tempo quello delle "tute blu" e dei contadini, perchè è quello che serve alle industrie dei servizi: ogni singola facoltà è funzionale alla mercatocrazia del lavoro terziario e burocratico, che svela un aspetto oscuro del tanto decantato "Welfare State". La cosa interessante è proprio questa, che dietro all'istituzione super-partes dello Stato che eroga i suoi servizi non c'è giustizia sostanziale, poichè vi si celano nei fatti tutti gli interessi egoistici dei tecnocrati a cui è affidata la loro amministrazione, siano essi "pubblici" o "privati". Dunque di tutte le attività pratiche volte al soddisfacimento dei bisogni che costellano la vita dell'uomo, si è fatto un insieme di professioni con realtive "competenze specialistiche" e di scienze da imparare all'università nel solco di una sistematica specializzazione del lavoro.

Ma torniamo ad Aristotele, perchè è attraverso di lui che si possono afferrare i termini del problema dell'economia odierna, cercando di saggiare quella che era la sua radice originaria, la sua ragion d'essere tradita dalle astrazioni e dalle derive scientifizzanti e burocratizzanti del tempo. Come si diceva prima, l'economia oggi è una "scienza", un sapere astratto, accademico, professionistico, in possesso dei tratti metodologici della scienza (metodo sperimentale e quantificante, logica simbolica matematizzante), è teoresi pura, non pratica di vita. Per un pensatore come Aristotele, appartenente ad un tradizionale, e tipicamente greco, modo di intendere la vita societaria, nella sua essenza comunitario, l'economia, come suddetto, era un'attività pratica, assolutamente alla portata di tutti, che si articolava in cellule comunitarie disposte in ordine crescente, come spiega nel Libro I della Politica (famiglia, villaggio, pòlis). Non era una scienza nel senso odierno del termine, era una pratica di vita. Oggi invece l'idea radicata nel senso comune è quella per cui se vuoi fare economia (agricola, ricollegandoci al tema centrale) devi avere una laurea o chissà quali meschine competenze da gretto specialista; tuttavia, in controtendenza con questo modello, si è affermata dalla fine dello scorso secolo un'idea diversa di economia, forte della sua ragion d'essere originaria, della sua essenza perduta e mistificata dalla "scienza economica". In sintesi, oggi le due diverse idee di economia sono quella modello Borlaug, lo scienziato all'opera che gioca in laboratorio (a cui si aggiunge il professorino economista che vaneggia e sputa pevisioni, formule, sistemi teoretici venduti come saponette per i quali prende pure dei tristissimi premi nobel), o quella direttamente democratica, autogestita dal basso, dalle tinte personalistiche e cooperativo-comunitarie. Da un lato un'idea teoreticistico-scientifica di economia, fatta in laboratorio, operativamente e idologicamente congeniale ad un complesso disarticolato di interessi egoisitici industriali dall'essenza capitalistica che si confà ad un tipo di società atomistica, dall'altro un'idea di economia che spontaneamente si è manifestata nella forma dei GAS, per non citare tutti gli altri casi, e che vuole riportarla al suo compito originario, utilizzandola secondo il fine per cui è nata, soddisfare i bisogni primari di una comunità di persone e non le esigenze di profitto di pochi a danno dei molti (i "consumatori", termine altamente ideologico che razionalizza l'estrema irrazionalità dello status quo che vede gli uomini come dei consumatori di merci e non come dei "fruitori" che mangiano del cibo perchè ne hanno bisogno, ad esempio). Non la crescita per la crescita, la produzione seriale fine a se stessa, per cumulare ricchezze su ricchezze, ma un'economia che si preoccupi dei bisogni naturali/necessari e naturali/non necessari, delle persone, depurandosi da tutti quei "falsi bisogni", eteroindotti con la pubblicità (ma non solo) da quegli interessi industriali che, per preservare il proprio tornaconto personale, producono merci sempre più varie e sofisticate instillando nel contempo nelle masse di "consumatori" le imprescindibili istanze di comodità . Ma sentiamo cosa può farci capire Aristotele della natura originaria dell'economia.

Nel I libro della Politica Aristotele fa riferimento ad una controversia sorta in merito alla crematistica e all'economia. L'economia, nell'accezione originaria e prima datale da Aristotele, significa, come suddetto, "cura dei beni familiari", mentre la "crematistica" è l'arte di cumulare ricchezze attraverso lo scambio. Ancora oggi si parla di una "concezione crematistica dell'economia" laddove si vuole sottolineare che predilige lo studio delle modalità di acquisizione delle ricchezze. Aristotele si chiede se economia e crematistica siano la medesima cosa, cioè se l'una sia agli antipodi rispetto all'altra, o se la crematistica sia subordinata all'economia. Aristotele chiarisce sin da subito che crematistica ed economia non sono la stessa cosa, perchè l'una mira a "usare" i beni, mentre l'altra a "procacciarli".


"Si vede chiaramente che l'arte dell'amministrazione domestica non è la stessa che la crematistica (perchè funzione dell'una è procacciare, dell'altra usare: e quale sarà l'arte che userà i beni della casa se non l'arte dell'amministrazione familiare ?): comunque se la crematistica sia parte dell'amministrazione domestica o di specie differente è una questione discussa."

(Aristotele, "Politica", libro I, paragrafo 8).

Proseguendo, Aristotele cerca di rispondere alla domanda se la crematistica sia parte dell'economia e spiega che ci sono due tipi di crematistica: una che ha un fine in sè, e cioè che mira all'autoaccrescimento autoreferenziale, tipica di un certo tipo di scambio quale quello praticato per mezzo della moneta; e una che ha un fine nel soddisfacimento di bisogni primari manifestati da una famiglia, da un villaggio (formato da più famiglie) o da uno pòlis, una comunità di più ampio respiro che racchiude tutti i villaggi. Il secondo tipo di crematistica è parte integrante dell'economia e mira a quello che per il filosofo è il fine prescritto dalla natura: l'autosufficienza e una vita felice. Il primo tipo, invece, non è compatibile con l'economia, perchè è il frutto, come dice Aristotele, di una serie di attività commerciali che si sono sviluppate a lunga distanza, grazie all'impiego della moneta e a causa di un notevole accrescimento della comunità.

L'idea di Aristotele è che la crematistica in sè sia dannosa, laddove essa mira a cumulare ricchezze su ricchezze in modo ipertrofico e autoreferenziale. Al contrario essa è fondamentale per integrare e completare l'economia, cioè quell'attività comunitaria, inizialmente familiare, volta al soddisfacimento dei bisogni primari, laddove però l'accumulazione di ricchezze ottenute col commercio è funzionale a questi bisogni comunitariamente manifestati.


"Ma della crematisitica che rientra nell'amministrazione della casa, si dà un limite giacchè non è compito dell'amministrazione della casa quel genere di ricchezze. Sicchè da questo punto di vista appare necessario che ci sia un limite a ogni ricchezza, mentre vediamo che nella realtà avviene il contrario: infatti tutti quelli che esercitano la crematisitica accrescono illimitatamente il denaro. Il motivo di tutto questo è la stretta affinità tra le due forme di crematistica: e infatti l'uso che esse fanno della stessa cosa le confonde l'una con l'altra. In entrambe si fa uso degli stessi beni, ma non allo stesso modo, che l'una tende a un altro fine, l'altra all'accrescimento. Di conseguenza taluni suppongono che proprio questa sia la funzione dell'amministrazione domestica e vivono continuamente nell'idea di dovere o mantenere o accrescere la loro sostanza in denaro all'infinito. Causa di questo stato mentale è che si preoccupano di vivere, ma non di vivere bene, e siccome i loro desideri si stendono all'infinito, pure all'infinito bramano i mezzi per appagarli."

In che modo questa tesi di Aristotele può aiutarci ad afferrare l'essenza del problema odierno ? Nell'Occidente e nel mondo, l'economia si è risolta nello scambio anarchico e autoreferenziale, praticato da interessi egoistici individuali che si rapportano l'un l'altro contrattualisticamente e con diffidenza, in un regime di sottile "bellum omnium contra omnes". Oggi l'economia di mercato capitalistica, mondializzata, onnimercificante e assolutizzata, retta da oligopoli di multinazionali che operano in svariati ambiti, è una versione iperevoluta di crematistica in cui si cresce per crescere, si produce illimitatamente non per i bisogni di una collettività comunitariamente definita, bensì per la brama di profitti di pochi potentati. Aristotele coglie già i rischi insiti in una crematistica del commercio sfrenato (monetario), che gioca con le ricchezze estraniandole dallo scopo intrinseco per cui sono nate: essere usate per soddisfare dei bisogni liberamente e spontaneamente manifestantesi. L'economia, al contrario, nel senso in cui la intende lui, è un'attività che si fonde strettamente con la politica, che ha i caratteri di una autogestione familiare e cittadina (realtà da intendere in senso comunitario) imperniata sull'agricoltura, sulla terra.

Dunque il problema è se intendere l'economia, con Aristotele, come un'attività pratica, comunitaria, fatta da persone che collaborano a che i propri bisogni spontanei vengano soddisfatti, oppure come una scienza astratta per dotti professori universitari, al servizio di un'economia di mercato capitalistica e industrialistica, mondializzata e oligopolica, spersonalizzante e atomistica. Nel primo caso, si dovrebbe integrare quell'idea di economia con certe acquisizioni importanti del liberalismo che ha riconosciuto all'uomo la propria libertà individuale, in società cittadine sempre più mastodontiche e massificanti. Si propenderà per un mercato liberista, in cui la ricchezza è data dallo scambio monetario fra individui che si fanno concorrenza e si rapportano contrattualisticamente, oppure per un mercato che si riconfiguri in senso localistico-comunitario, che si sviluppi attorno al concetto di "bene comune" e non di "merce", finalizzando lo scambio al bisogno e non alla ricerca del profitto fine a se stesso? Si potrebbe fare tesoro di tutte le realtà associative alternative che si muovono in questa direzione, rendendole intanto pienamente operanti e funzionanti (GAS, Ecovillaggi, Agrivillaggi, orti urbani ecc.), per costituire saldamente un sistema socio-economico parallelo che sperimenti nuove forme di convivenza, per poi giungere ad un complesso di valori etico-politici nuovi rispetto a quelli tradizionali. Oggi la via verso nuovi modi di vivere è più chiara, ma è disarticolata, riluttante e ancora piva di una visione di insieme, lungimirante e ad ampio raggio, che si ponga dunque il problema di superare l'odierno modo di fare economia (e politica allo stesso tempo).

Un'economia fatta dal basso, che aspiri ad essere comunitaria, che parli anche di felicità interpersonale, autogestita in modo direttamente democratico, praticata in funzione di bisogni spontanei e liberi, che abbandoni il superfluo del lusso e delle comodità, il cui bisogno è indotto con la pubblicità da pochi interessi industriali accecati dal profitto che vogliono cittadini/consumatori sempre frustrati e insoddisfatti. Un'economia che recuperi le sue radici comunitarie, superando il caos anarchico e individualistico del mercato di matrice moderno-liberale, riabilitando l'agricoltura naturale e facendo della ricchezza un "bene" generato dalla coltivazione solidale e cooperativa della terra, piuttosto che dallo smercio di comodità e sofisticherie o dal mercato finanziario delle borse.

  
                                                                                                                                     Ugo Giarratano

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