lunedì 25 agosto 2014

Edge of Blair (1/3) : New Labour

La Terza Via e il sogno poi infranto della sinistra

Rinnovamento e progresso per affrontare la modernità

Nel corso delle prossime settimane affronteremo il percorso politico di uno dei personaggi che più ha segnato gli ultimi anni, sia nel bene che nel male. Sto parlando di Tony Blair, Primo Ministro inglese dal 1997 al 2007. Attraverso tre tappe analizzeremo la strada della terza via dai successi ai fallimenti, fino al disastro dell'Iraq. Analizzeremo l'eredità politica di quell'esperienza e le sue conseguenze, utile a comprendere il mondo di oggi e le similitudini con il caso italiano e il Presidente del Consiglio Matteo Renzi.
Tony Blair mette piede nella vita pubblica per la prima volta nel 1982, durante le elezioni suppletive di Beaconsfield rivestendo il ruolo di candidato laburista. Il seggio sopracitato è da sempre una roccaforte conservatrice, vincere è una pia illusione. Proprio per queste sue caratteristiche il giovane Blair decide di candidarsi a soli 29 anni per il Parlamento. Essendo una battaglia persa in partenza, il partito laburista non cerca un vero candidato ma un folle che accetti da subito la sconfitta. In tal modo Blair decide di lanciarsi all'avventura, conscio si della sconfitta annunciata ma bensì sicuro di ottenere la sua prima vetrina pubblica che gli permetta di far circolare il suo nome e guadagnare qualche posizione all'interno del partito. Nulla da perdere e tutto da guadagnare, questo il pensiero nella mente di Tony Blair che da perfetto sconosciuto riuscirà a farsi conoscere in breve tempo, nonostante la sconfitta annunciata. Nel 1983 Tony Blair vince il suo primo seggio elettorale per il Parlamento a Sedgefield; queste le sue prime parole da deputato al Parlamento: "Non sono socialista perché la lettura di un libro di testo ha acceso la mia fantasia e neppure perché provengo da una tradizione accettata senza riflettere; lo sono perché credo che il socialismo sia l'ideale più vicino a un'esistenza che sia insieme, razionale e morale. Esso è per la cooperazione, non per la competizione; per l'amicizia, non per la paura. Esso sostiene l'uguaglianza". Negli anni egli ricoprirà un ruolo sempre più importante all'interno del partito insieme al'amico-rivale Gordon Brown, fino a ricoprire il ruolo di ministro ombra dell'interno. Nel 12 Maggio 1994 avviene la svolta, muore il leader del partito John Smith, si apre così la lotta per la successione. L'obbiettivo è riportare al governo i laburisti dopo 18 anni all'opposizione, Tony Blair è pronto, è il suo momento, ha pronto il piano per battere i Tory. Bisogna cambiare, bisogna guardare al futuro e al mondo che cambia, bisogna essere un partito nuovo, progressista e aperto nel quale tutti possano essere rappresentati, anche il ceto medio. Blair vuole che anche la classe media e imprenditoriale possa votare Labour anzi New Labour; se si crede nell'eguaglianza, nel progresso, nella giustizia nell'istruzione allora dovevi votare New Labour. Si New Labour, una nuova visione del mondo che abbandoni le posizioni dogmatiche del passato, come la nazionalizzazione dei mezzi di produzione, che guardi all'intero popolo britannico e non più solo al ceto operaio ormai in dissoluzione; una Terza Via al socialismo e al liberismo, non più destra e sinistra ma cambiamento contro conservazione, guardare alla modernità. Queste le premesse per costruire il partito di sinistra che possa vincere ora e in futuro. Dopo lunghe trattative private tra Tony Blair e Gordon Brown, quest'ultimo decide di non partecipare al congresso e di sostenere il rivale Tony diventando suo secondo, nonostante le divergenze tra i due sul ruolo statale e degli investimenti pubblici (2 elementi del DNA di Gordon). Tony Blair diviene il leader del partito laburista e inizia subito il processo di trasformazione.
 Nasce il New Labour, si cambia lo statuto eliminando l'articolo sulla nazionalizzazione dei mezzi di produzione, si impronta la campagna su legalità e istruzione, duri con il crimine e duri con le cause del crimine, si parte dalla scuola con lo slogan "Education Education Education". Le parole di Blair al Times nel 1995: "Le prime vittime del degrado sociale sono i bisognosi e gli svantaggiati. E' per questo motivo che la sinistra dovrebbe occuparsene seriamente(...)Il centrosinistra dovrebbe essere la posizione dei meritocratici del xxi secolo(...)Il governo laburista che spero di poter dirigere sarà rivolto verso l'esterno, sarà internazionalista e sostenitore del libero mercato e non di un superato e fuorviante nazionalismo. E' un centrosinistra rinnovato e rivitalizzato che è chiamato a rispondere e a formare la nuova società del cambiamento. Se saprà sfuggire i limiti di una volta, imparando dalla storia e non vivendo nel passato, sarà ben equipaggiato sia intellettualmente che filosoficamente per l'avvenire. E' proprio per questi scopi che il New Labour continuerà a cambiare". Il New Labour deve essere moderno, pronto a guidare il cambiamento, a costruire il futuro e una "Gran Bretagna Migliore" ("Because Britain deserves better" il manifesto). Nel 1997 Tony Blair diviene Primo Ministro con 418 seggi su 659, una vittoria schiacciante che riporta la sinistra al Governo, e così sarà ancora per 2 volte consecutive fino al 2007. Blair diventa l'icona mondiale della sinistra moderna e vincente, come Clinton negli States, insieme diventano l'esempio per la sinistra nel mondo. Nascono anche pareri nettamente contrari, che vedono la nuova visione come non più di sinistra ma di destra, un tradimento degli ideali socialisti; le parti così si dividono. Il New Labour è sicuramente una macchina vincente, per molti è solo un operazione di marketing politico, vuoto e privo di idee; per Blair è molto di più, è una visione nuova e originale che potrà guidare la nazione sia ora che in futuro. Il sogno di una sinistra neoliberista sarà poi infranto dalla crisi economica del 2008, contro la quale nulla è stato fatto, fermi nell'immobilismo liberista dimenticando l'intervento statale e la spesa pubblica. La Terza Via non risolve la crisi economica poiché ne è essa stessa artefice. 
Abbiamo così attraversato il cambiamento e la vittoria della sinistra inglese; nella seconda parte affronteremo i primi anni di Governo , la pace in Irlanda del Nord, il legame con Clinton e la guerra in Kosovo.


Giorgio Mineo 

mercoledì 20 agosto 2014

Non basta il Presidente nero

White America: Stati Uniti senza libertà


Quello che è accaduto una settimana fa, a Ferguson, Missouri, cioè l'assassinio di un nero da parte di un poliziotto bianco, e quello che è successo dopo, gli scontri e le tensioni con la polizia nelle notti americane, ma anche le manifestazioni pacifiche, possono farci affermare che forse esiste un'America bianca ed un'America nera e che i governi degli Stati Uniti non sono liberali, bensì tirannici.
Molte circostanze fanno gridare all'America che questo è stato un omicidio a sfondo razziale: dai testimoni che affermano che Michael Brown, il ragazzo ucciso, era disarmato; dai sei colpi che hanno colpito il bersaglio, quasi a volersi accanire, decisamente troppi anche per un bersaglio che, come sostiene le polizia, era armato; dal fatto che questi strani omicidi accadono con una certa frequenza negli States. Omicidio avvenuto in un sobborgho nel quale il 60% della popolazione è nera, il 90% dei poliziotti sono bianchi, così come la maggior parte dei funzionari pubblici e dei rappresentanti politici. Non solo Ferguson, periferia di St. Louis, ma anche tante altre città americane vivono situazioni del genere. Nella stessa America, in alcuni luoghi, ne vivono due di Americhe: applicazioni diverse della legge per bianchi e neri, salari diversi a seconda del colore della pelle, quartieri e scuole bianchi e neri. Negli Stati Uniti c'è chi ancora vive segregato, urlano da più parti. E se da un lato le comunità nere lottano a Ferguson e non solo, un'ala del Ku Klux Klan, folkloristicamente, lancia una colletta per il poliziotto bianco. Insomma: "i fantasmi del sud razzista" sembrano non abbandonare mai gli USA, spettri che fanno parte degli Stati Uniti dalla loro nascita. Dai padri fondatori, illuministi e cristiani, cioè bianchi che credevano che tutti gli uomini nascono uguali e liberi, eccetto i neri, quindi uomini capaci di continuare a far perpetrare quell'abominio chiamato schiavitù, passando per le piantagioni dell''800 americano e di inizio '900, fino al sindacalismo del rastafariano Marcus Garvey ed alle marce per i diritti civili negli anni '60, quelle dei religiosi Martin Luther King e Malcom X. Il legame tra religione e comunità nere è fortissimo. Storicamente le chiese cristiane sono state fondamentali nel creare unione tra i neri d'America: in questo modo il messaggio cristiano è diventato emancipativo per le comunità nere, le quali sognano veramente un mondo cristiano dove bianchi e neri nascano uguali. Jesse Jackson, reverendo che lottò con Martin Luther King, candidato alle primarie democratiche dell''84 e dell'88, partecipa anche a questa lotta e, come tutti gli altri partecipanti, chiede che sia fatta giustizia.
Obama, è, come sostiene Federico Rampini, braccato dalla destra americana. In questo modo non può esporsi tanto, sostiene il giornalista, nel difendere le comunità da cui proviene. Il presidente ha però ammesso che la polizia ha abusato del suo potere. Infatti le forze dell'ordine hanno utilizzato metodi militari, trasformando la periferia nord di St. Louis in campo di battaglia iracheno o afghano. La zone non può essere sorvolata, così che gli elicotteri delle tv non possano filmare la zona. Non possono nemmeno entrare i giornalisti. Ne sono stati arrestati due: in questo modo la polizia e la Guardia Nazionale, mandata dal governatore Jay Nixon, calpestano il primo emendamento della Costituzione americana: "Il Congresso non promulgherà leggi [...] che limitino la libertà di parola, o di stampa [...]". A Ferguson operano blindati della polizia. Oltre ai blindati sono usate altre attrezzature militari, create per l'anti-terrorismo più che per la pubblica sicurezza. Sostiene Trevor Burrus, ricercatore del Cato Institute, che nel 90% delle città americane medio-piccole, quindi nel mondo della provincia americana, la polizia è affiancata da squadre SWAT, unità speciali destinate ad operazioni anti-terroristiche. In questo modo gli Stati Uniti rendono un lembo della loro terra di questo "pugno di fango" una zona di guerra e fanno la guerra contro i loro cittadini.
La libertà assoluta era il fine di coloro che scrissero la Costituzione americana, una libertà così assoluta che non riusciremmo nemmeno ad immaginarla: uno dei concetti più alti che l'intelletto umano abbia mai raggiunto. Libertà, per esempio, dal pregiudizio razziale ed ai perseguitati ed oppressi dal pregiudizio. Così tanta libertà che, in verità, chi manifesta violentemente a Ferguson, per certi aspetti, nel solco della migliore tradizione liberale, ha il diritto di farlo. Sosteneva il liberale Locke, infatti, che in uno Stato liberale gli uomini hanno il diritto di possedere delle armi, in modo tale che, nel caso in cui il governo diventi tirannico, possano rovesciare la tirannia e rimettere il potere nelle mani di chi farà buon uso di quel potere. Migliore tradizione liberale, affermo, non per l'uso delle armi e della violenza, ma per l'idea di fondo: il popolo ha, veramente, il controllo sui governanti. Questo è, forse, uno dei taciti motivi che hanno portato i padri fondatori a redigere il II emendamento della Costituzione, quello nel quale si concede il diritto di possedere armi. Il diritto di spodestare un governo tirannico, ovviamente, fu presto sepolto quando, nel mondo, i liberali, con varie rivoluzioni, presero il potere: a quale forza governante converebbe il mantenimento di un tale diritto? Ovviamente, sosteneva Locke, questo diritto, chiamato d'insurrezione, non può sempre essere adoperato. Lo si può adoperare dopo molto tempo passato sotto le catene della tirannia e della schiavitù: bastano cinquecento anni di abusi e violenze adoperate sui neri sul suolo americano?



                                              

                                                                                                                      Di Alberto Mannino

sabato 9 agosto 2014

La nascita della filosofia secondo Giorgio Colli

Filosofia e sapienza



Giorgio Colli è stato un filosofo e filologo del novecento, noto per essersi occupato con acribia della traduzione italiana delle opere di Nietzche, sistemandole in un’edizione critica che emendava le raccolte degli scritti del filosofo da tutte le interpolazioni faziose e le manipolazioni massicce dovute all'infausta opera della sorella, amica di Hitler e responsabile della cosiddetta "nazificazione" del pensiero di suo fratello. Colli apprezzò la prospettiva e il metodo di analisi critica adottato da Nietzsche che consistè essenzialmente in una globale critica della tradizione del pensiero filosofico occidentale alla luce del modo di sentire, di vedere e di pensare tipicamente greco, pienamente identificabile nella tragedia del V secolo. Colli si assesta in seno al filone filosofico-interpretativo (Schopenauer-Nietzsche-Colli stesso- oggi: Angelo Tonelli) che mette su un' impostazione singolare del problema della grecità e delle sue forme espressive e artistiche. Congiuntamente,  è perorata una visione anticonvenzionale della nascita della filosofia che la riconduce allo sciamanesimo orientale e iperboreo poi traspostosi nel culto eleusino-misterico di Dioniso. In generale, questo filone di pensiero rigetta l'approccio razionalistico egemone allo studio della filosofia greca antica, ritenendo piuttosto che essa debba essere esaminata secondo una prospettiva più vicina a quello che era il substrato culturale dei greci d'età arcaica: il retroterra cultuale dei misteri eleusini che erano delle festività religiose di ispirazione orientale, di massima importanza per la vita comunitaria degli ateniesi.

Uno dei problemi attenzionati da Colli è stato quello della nascita della filosofia, alla cui risposta ha dedicato un libretto di poche pagine, ma densissimo, in cui collega la filosofia stessa, prodotto precipuo dell’esperienza storico-ideale di Platone, alla longeva e remota tradizione della “sapienza greca”. L’impostazione del problema da districare verte proprio su quest’ultima, pertanto il quesito generale che viene sollevato si chiede quando e come la sapienza greca sia nata, per poi rilevarne i fattori di continuità che si sono protratti nel tempo, sino alla nascita della filosofia con Platone. Giorgio Colli, da ammiratore e studioso assiduo di Nietzsche, trae spunto per la sua disamina proprio da una sua opera, “la nascita della tragedia”, da cui estrapola il metodo di analisi scelto dall’autore, consistente in un’approssimazione critica alla Grecità, e ad una sua particolare espressione culturale (la tragedia nel caso di Nietzsche, la sapienza nel caso di Colli), mediante la selezione di alcune figure simboliche cruciali che ne serbano il significato e il senso autentici. Si potrebbe intendere come uno studio simbologico che nei simboli, per l’appunto, vede le chiavi di lettura più adatte per comprendere lo spirito greco. Dioniso e Apollo sono le due figure scelte da Nietzsche e da Colli, ma quest’ultimo dà loro delle significazioni estremamente diverse da quelle nietzschiane, alla luce anzitutto del diverso oggetto di ricerca: la sapienza.

I Greci: sapienza e follia visti nel segno di Apollo.


Colli ritiene che non ci si debba domandare quali siano le origini della filosofia, perché senza dubbio essa sorge nella sua essenzialità con Platone, concepita come un’attività educativa che si dispiega nella forma letteraria del dialogo. Piuttosto è più utile chiedersi quali siano le origini della sapienza, perché è a questa che si ricollega espressamente la “filosofia” di Platone, sia semanticamente (“amore della sapienza”) sia ideologicamente. L’obiettivo di Platone è recuperare la sapienza antica, o quanto meno di avvicinarvisi.

Quindi, quali sono le radici della sapienza greca ? Secondo Colli sono ravvisabili nel valore accordato dai Greci alla figura di Apollo. Tralasciando tutte le critiche e le rettificazioni alla significazione nietschiana di Apollo, Colli rileva come questo sia l’attestazione simbolica del luogo naturale e del valore supremo dati dai Greci alla sapienza (“sophia”). L’ambiente precipuo in cui germina la sapienza greca è quello religioso, oracolare, misterico, mistico. Apollo è il dio a cui sono riservati svariati santuari disseminati per il suolo greco; il suo culto è importantissimo perché esprime l’amore tutto greco per la conoscenza, vista come dono divino comunicato agli uomini per tramite dell’oracolo. Ma che tipo di conoscenza ? In che modo è comunicato questo messaggio e qual è la fisionomia di questo dio, Apollo ? La conoscenza trasmessa è un sapere divino, tradotto per gli uomini sotto forma di divinazione, affinché sappiano il proprio futuro o abbiano una guida, un punto di riferimento per la propria condotta di comuni mortali. Questo messaggio, però, è criptico e ambiguo, estremamente allusivo e per nulla chiaro. Il dio provoca l’uomo, lo spinge a cimentarsi in una sfida, quella di decifrare il messaggio da lui inviatogli; ed è per questo che risulta crudele e malevolo per questa sua mancanza di chiarezza. Apollo è raffigurato talvolta con la lira, che simboleggia la sua azione propizia, talora con l’arco, segno della sua azione ostile verso l’uomo (come succede nel primo libro dell’Iliade, quando Apollo semina la morte nell’accampamento greco, scagliando le sue frecce). L’arco e la lira simboleggiano la parola, attraverso cui la sapienza divina discende nel mondo degli uomini, ora devastando impietosamente, ora intervenendo in aiuto.

Dunque, ricapitolando, la sapienza greca affonda le radici nell’ambiente religioso. La sua espressione avviene nel santuario, per mezzo dell’oracolo; il suo esserci è dovuto al contatto mistico avuto dall’oracolo con il dio, fonte naturale della sapienza stessa, che, però, venendo comunicata all’uomo, si risolve in un messaggio estremamente criptico ed enigmatico.  Ma andiamo alla domanda nodale: in che modo è comunicato questo messaggio ? Per rispondere a questo quesito, Colli mette in discussione le valenze antitetiche attribuite da Nietzche ad Apollo e a Dioniso. Questi, infatti, sostiene essenzialmente che lo spirito greco sia comprensibile solo se si considerano le sue due istanze emergenti: quella apollinea e quella dionisiaca. Alla prima è ascritta la tendenza a costruire sistemi teorici definitivi, per via del suo congenito senso della misura e della sua pura razionalità spassionata. Alla seconda è ricondotta la tendenza a far valere l’immediatezza e la caoticità della vita, contro ogni pretesa della forma di ingabbiarla conclusivamente. Colli spiega che Apollo in realtà condivide con Dioniso un’intrinseca follia (“mania”) , sulla scia di “Apollo Iperboreo”, fatto risalire dai Greci a delle popolazioni dell’estremo settentrione in cui si praticavano riti sciamanici improntati al misticismo. In più, rileva come Platone nel Fedro, paradossalmente, elogi la follia come stato d’animo necessario a che si possa attingere la sapienza, intesa come divinazione.

In conclusione, la sapienza greca sorge nell’ambiente religioso-oracolare (culto di Apollo) e la sua matrice di fondo è la follia. L’esempio più chiaro ed evidente di questa commistione tra conoscenza e religione, tra sapienza e follia, è il significato del concetto di “theoria” che originariamente indica la partecipazione ad una festa religiosa.

Arianna, Orfeo e il dio-animale (Dioniso)



Teseo e il Minotauro
Se Apollo simboleggia la sapienza stessa, carpita dagli uomini per mezzo dell’oracolo, Dioniso può essere visto come il “presupposto della conoscenza”, perché, in quanto divinità eleusina, è oggetto di un culto che nella pratica culmina in una fusione mistica col dio, nell’estasi. Questa amalgama mistica al dio è il simbolo di ciò che richiede la conoscenza, ovvero partecipazione del soggetto conoscente all’oggetto conosciuto, in questo caso Dioniso, sicuramente preminente rispetto al soggetto stesso (l’uomo). E’ tipico della sapienza greca, infatti, l’aspetto teoretico, la “theoria”, come detto poc’anzi, nel suo significato di “partecipazione”.

Ma la peculiarità di Dioniso risiede piuttosto nell’immediatezza della vita che trasuda, nell’animalità che lo qualifica intrinsecamente. Colli rintraccia le origini della sapienza nella religione antica, di cui eleva a simbolo-chiave il culto di Apollo risalente all’incirca ai primordi del I millennio; l’altro percorso di indagine è il mito, molto più antico, le cui radici temporali risalgono alla seconda metà circa del II millennio a.C.                                                                                           Il mito ci rimanda ad un’origine ancora più remota della sapienza, fino ad  ora ricollegata al culto di Apollo e alla follia. Se Apollo ha origini dall’Apollo Iperboreo che i Greci riconducevano alle popolazioni dell’estremo settentrione,  Dioniso sembra allignare in principio nella mitologia cretese (mondo minoico-miceneo), per poi subire delle modificazioni che ne attenuano l’originaria ostilità all’uomo.

Il mito di Arianna è il documento storico a cui appellarsi per decifrare i connotati più primordiali e remoti di Dioniso che lo ritraggono come un dio-animale (il minotauro rinchiuso nel labirinto), il cui destino è di risultare sempre vincitore.

Occorre soffermarsi sul “labirinto”, perché è il punto di dissidio tra l’uomo e il dio, così come lo è l’ “enigma” nel caso di Apollo. Il labirinto simboleggia l’occasione offerta dal dio all’uomo a che si illuda di poterlo sconfiggere attraverso i propri espedienti razionali. Come precisa Colli, Platone usa nell’ Eutidemo la locuzione “gettati dentro un labirinto” per significare un alto grado di complessità dialettica e razionale. Il labirinto stesso, per l’appunto, allude alla ragione, al “logos” che tenta con i suoi mezzi di intrappolare il dio-animale, Dioniso. Il conflitto tra il dio e l’uomo è qui pienamente in atto e alla fine il tentativo del primo di ricondurre la razionalità del secondo alla sfera dell’animalità prevale, grazie alla figura-chiave di Arianna.

E’ col mito di Orfeo che avviene quella trasfigurazione simbolica che dipinge Dioniso come un dio meno ostile e bestiale, più vicino all’uomo. La sua figura, sempre però crudele, si articola in forme espressive che sono solo umane, diversamente da quanto accade nel mito di Arianna. Queste sono l’emozione, la poesia, la musica, tutte capacità e qualità che ci suggeriscono un’avvenuta edulcorazione dell’immagine di Dioniso. Ciononostante, il dio si manifesta sempre nell’atto di punire con ferocia l’uomo, come Orfeo che tradisce il culto di Dioniso per accordare il suo favore a quello di Apollo e per questo viene dato in pasto alle Menadi.

In conclusione, il processo di trasfigurazione simbolica di Dioniso è la manifestazione dell’altro aspetto della sapienza greca: l’immediatezza e la spontaneità animalesca della vita. Queste due componenti si congiungono con la parola e la conoscenza, coessenziali al culto di Apollo; tutte e quattro sono collocate sullo sfondo della “mania” (follia).


Dio e l’uomo: la “frattura metafisica” e il cammino verso la filosofia.



Giorgio Colli inizia a porre le premesse per il discorso importante sul passaggio dalla sapienza alle nuove forme di espressione razionale, astratte e dialettiche.

Riepilogando, la sapienza greca si dispiega sul terreno fecondo del rapporto religioso (oracolare, mistico, misterico ecc.) tra l’uomo e il dio, sia Apollo o Dioniso. Con Apollo e Dioniso i Greci intrattengono un rapporto travagliato, con l’uno cercano di carpire la conoscenza, espressa attraverso la parola sotto forma di divinazione (enigma); con l’altro cercano di tenere sotto controllo tutto ciò che è immediato e bestiale (“istintuale”), attraverso la ragione, il “logos” (labirinto). In entrambi i casi si tratta di sfide tra l’uomo e il dio. La conoscenza è una sfida offerta da Apollo all’uomo, questo aspetto agonico si coglie nella natura ambivalente e oscura del responso oracolare e l’enigma è il punto critico di contrasto tra l’uomo greco, che mira alla conoscenza, e il dio che è sostanzialmente ostile all’uomo.

A questo punto Colli spiega il concetto di “frattura metafisica”, ossia quella spaccatura netta e recisa che sussiste tra la sfera del divino e la sfera dell’umano. L’enigma è il punto di interconnessione conflittuale e critica tra l’uomo e il dio, Apollo. Colli spiega come l’enigma sia il fulcro attorno a cui ruota il processo di trasfigurazione della sapienza greca in dialettica, retorica e infine filosofia. A tal proposito occorre impostare il discorso sotto due punti di vista, riprendendo il problema generale e chiarendo che cos’è l’enigma. Problema generale: in primis Colli si chiede quali siano le origini della sapienza greca, per capire il significato storico-ideale della filosofia sorta con Platone. Questa si pone come un tentativo di riavvicinarsi alla sapienza degli antichi, in quanto “amore della sapienza”.  Una volta spiegato che cos’è la sapienza attraverso i due culti di Apollo e di Dioniso, si giunge all’enigma come momento critico di passaggio.

 Ma in che senso l’enigma è il punto di raccordo tra la sapienza e le nuove forme astratte di pensiero (dialettica anzitutto) ? 

Chiediamoci prima che cos’è l’enigma secondo Colli, tracciando la sua evoluzione storico-semantica alla luce di quella che è la prospettiva trainante: il rapporto tra sfera divina e sfera umana, con progressiva autonomizzazione dello spazio umano . Per questo, ci si può avvalere direttamente di un passo suntivo dell’autore.

“Si è detto che con l’entrare dell’enigma nella sfera umana, con l’attenuarsi della sua provenienza dal dio, va affermandosi sempre più una sua formulazione contraddittoria. C’è un nesso fra i due fenomeni ? prima di esaminare questo problema, occorre vedere come vada configurandosi questo umanizzarsi dell’enigma, il che coincide con la nascita dei sapienti. Prima il dio ispira un responso oracolare, e il “profeta”, per dirla con Platone, è un semplice interprete della parola divina, appartiene ancora totalmente alla sfera religiosa. Poi il dio, attraverso la Sfinge impone un enigma mortale, e l’uomo singolo deve scioglierlo, pena la vita. Infine due divinatori lottano tra loro per un enigma , Calcante e Mopso: non c’è più il dio, rimane lo sfondo religioso, ma interviene un elemento nuovo, l’agonismo, che è qui una lotta per la vita e per la morte. Un passo ancora, cade lo sfondo religioso, e viene in primo piano l’agonismo, la lotta di due uomini per la conoscenza: non sono più divinatori, sono sapienti, o meglio combattono per conquistare il titolo di sapiente.”


Da questo Colli inferisce che l’intero processo di umanizzazione dell’enigma, che perde il suo valore religioso-simbolico di sfida lanciata all’uomo dal dio, si manifesta in una sempre più frequente formulazione contraddittoria del medesimo, a tal punto che alla fine Aristotele ne rintraccia le proprietà formali nella contraddizione stessa che, però, significa qualcosa di reale. E con questo si risponde alla domanda sul modo in cui debba interpretarsi l’elevazione dell’enigma a punto di raccordo tra la sapienza e la dialettica. L’enigma viene umanizzato e mondanizzato, svuotato del suo significato primordiale (religioso-oracolare) e rielaborato in chiave nuova, mantenendo la sua struttura formale contraddittoria e dilemmatica e la sua latente natura agonica, che alle sue origini si traduceva nel conflitto col dio e che adesso si risolve unicamente nella sfera umana.

 Enigma, sapienza e dialettica.

Avviene quindi un’umanizzazione dell’enigma che traspone la sua contraddittorietà e il suo spirito agonico dall’àmbito divino a quello umano. C’è una nuova pratica che incomincia a plasmarsi, discendendo dalla sapienza: la dialettica.

Colli spiega che cos’è: “La dialettica è qui usata nel senso originario e proprio del termine, ossia nel significato di arte della discussione, di una discussione reale, tra due o più persone viventi, non escogitate da un’invenzione letteraria.”.

Con la dialettica il “pròblema”, che presso i tragici veniva impiegato col significato di “ostacolo”, a indicare la sfida cui il dio sottopone l’uomo, incarna il passaggio dall’agonismo sapienziale dell’enigma, cifra del conflitto dio-uomo, all’agonismo solo umano tra due persone che si contendono il titolo di sapiente, sollevando un “pròblema”, una questione, un problema, come diciamo noi ancora oggi, che si pone come un dilemma con due opzioni contraddittorie che corrispondono alle due tesi contrapposte che devono essere perorate dall’uno e dall’altro interlocutore.

In sintesi, le basi della filosofia si pongono con la dialettica e la dialettica è frutto di un’umanizzazione dell’enigma che, nell’àmbito di un agonismo solo umano, diventa “pròblema”, “interrogazione”, “ricerca”, “aporia”, “domanda dubbia”. Tutti termini che nell’assimilazione di nuovi significati serbano quelli originari inerenti all’enigma sapienziale-oracolare.

 Il cammino verso la filosofia: la dialettica di Parmenide e Zenone, la retorica di Gorgia e la filosofia di Platone.


 Colli si sofferma sui protagonisti della dialettica, quelli che le hanno dato una statura dirompente e che ne hanno sviluppato le potenzialità sino alle estreme conseguenze (Zenone). Per capire questo discorso bisogna integrare la definizione suddetta di dialettica. Essa è l’arte del discutere tra persone in carne e ossa, intorno ad un certo problema che viene sollevato e che viene trattato da due interlocutori sotto due punti di vista contraddittori, perorando due tesi contrapposte. Una caratteristica congenita della dialettica è la sua vena distruttiva, la sua attitudine naturale a demolire le tesi altrui, ma, se richiesto, anche le proprie. Non importa confutare le tesi altrui, per avvalorare e rafforzare la propria. I dialettici sono dei critici, dei demolitori, dei confutatori  che non avanzano alcuna tesi positiva, costruttiva, perché il loro convincimento radicato e presupposto è che tutto è confutabile e nulla è certo. Questo è lo spirito originario della dialettica. Essa è una tecnica interrogativa che per domande e risposte deduce i tanti anelli di un ragionamento complesso dalle risposte date dal rispondente; questo ragionamento che collega tutte le risposte serve ad esplicitare le incoerenze insite nella perorazione dell’interlocutore avversario.

Dunque, ricapitolando, la dialettica è quell’arte della discussione, congenitamente demolitrice, che è il prodotto della progressiva umanizzazione dell’enigma, del “pròblema” dei tragici, che poi si è trasfigurato nel “pròblema” dei dialettici, emendato da ogni significazione divina e sapienziale. In più, il terreno di coltura dell’enigma era quello divino, ai primordi; divino e insieme umano, in seguito, ed esclusivamente umano a partire dai dialettici. Andiamo ai protagonisti della dialettica. Eraclito, Parmenide e Zenone sono ancora annoverabili tra quei sapienti di mezzo che ancora tentano di coniugare equilibratamente, chi più chi meno, la sfera del divino con la sfera dell’umano, perché, come è stato precisato sopra, sin dalle origini della sapienza greca, è latente questa tensione conflittuale tra il dio e l’uomo. Questa tensione verrà via via stemperata attraverso la marginalizzazione del dio e confinata nell’àmbito del mero agonismo umano (dialettico). Il dio viene sopravanzato dall’uomo. Secondo Colli è intenzione di Eraclito, di Parmenide e di Zenone arginare la tensione nichilistica insita nella dialettica demolitrice, tentando di combinare in modo conciliante il retaggio sapienziale enigmatico-religioso con le nuove acquisizioni: la dialettica.

Eraclito risolve positivamente questa tensione caratterizzando la propria dottrina in senso enigmatico. In altre parole, traccia le linee della sua dottrina al fine di esprimerla come un enigma, sulla scia di quelli antichi, a cui però dà una profondità di significato e di senso inaudita e dalla cui risoluzione fa dipendere la scoperta del dio nascosto che si cela dietro l’apparenza del mondo sensibile, perpetuata dai “dormienti”.

Parmenide, invece, imposta il problema teoretico in forma dialettica e contraddittoria (“è o non è ?”), concedendo qualcosa alla dialettica, ma subito si impegna a preservare l’enigma, il dio nascosto, dalle tensioni nichilistiche della dialettica stessa, per cui subito, sotto l’egida della dea “Aletheia” (“non nascosto”) , fissa incontrovertibilmente come percorribile solo la via dell’essere (“è”), aborrendo il non essere, massima espressione della dialettica e del suo spirito distruttivo, negativo.

Zenone, il discepolo di Parmenide, porta alle estreme conseguenze le potenzialità della dialettica, dando libera stura alle sue istanze nichilistiche (“nichilismo teoretico”), solo, però, per giustificare la dottrina del maestro, dando a vedere quanto il mondo sensibile sia soltanto apparenza che cela il dio nascosto. La dialettica con Zenone diviene da mera tecnica argomentativa una vera e propria “teoria del logos” in cui si mettono a nudo le deficienze della “ragione”.

Dopo Eraclito, Parmenide e Zenone finisce l’età della sapienza e la dialettica si dimostra una premessa vera e propria alla nascita della filosofia. Ma prima bisogna passare per la retorica.

Retorica e filosofia come letteratura.


La retorica è il prodotto del processo di trasformazione della dialettica che già con Zenone aveva sfoggiato la sua vena distruttiva e nichilistica (il “non essere”). Gorgia radicalizza tremendamente l’insegnamento della dialettica enunciando i  tre punti cardinali della sua dottrina:

1)      L’essere non è.

2)      Se anche fosse non sarebbe conoscibile.

3)      Se anche fosse conoscibile non sarebbe comunicabile.

Qui lo spirito nichilistico della dialettica è ai massimi livelli, ulteriore sviluppo del livello a cui Zenone l’aveva portata, mirando a salvaguardare la sfera del divino, dell’ “essere” contro il “non essere” sopravanzante. Gorgia non si preoccupa minimamente di ottemperare a questo principio di tutela del divino. Con lui l’universo di discorso è unicamente umano, è quello dei nuovi luoghi di discussione che si formano nelle pòleis, animati dalle nuove passioni politiche e oratorie. Dai luoghi elitari e appartati dei dialoghi eleatici si passa a quelli pubblici e cittadini.

La retorica gorgiana modifica considerevolmente il linguaggio dialettico, volgarizzandolo, politicizzandolo e pubblicizzandolo attraverso la scrittura, un medium di comunicazione nuovo, e ormai in procinto di essere egemone, che con Platone concorrerà alla nascita della filosofia come letteratura dialogica. La retorica trasforma l’agonismo umano dialettico, cambiandone le modalità di esecuzione: non ci sono più due interlocutori appartati che si battono per la sapienza, demolendosi le tesi a vicenda, ma due retori che declamano le proprie orazioni in pubblico, dinanzi ad una gruppo folto di persone che si limitano ad ascoltare. Il giudice non è più il dialettico interrogante, ma il pubblico che si sia dichiarato più “persuaso”. La dialettica mira alla sapienza, la retorica mira alla sapienza per  la potenza. La suggestione è il suo modo di vincere, di conquistare le folle. Questo è il suo obiettivo, la sua ragion d’essere.

Ricapitolando…

Dialettica:

1)      Spirito critico-distruttivo.

2)      Tensione intrinseca ad esautorare la sfera del divino, verso un agonismo esclusivamente umano e mondano.

3)      I protagonisti sono Eraclito, Parmenide, Zenone, ma essa ha origini remote.

4)      Il suo luogo naturale è la riunione appartata ed elitaria in cui prende vita il diverbio tra due interlocutori che perorano due tesi contraddittorie. E’ una pratica essenzialmente orale.

5)      Le sue potenzialità si manifestano nella formulazione di categorie teoretiche astratte, alle quali mai si era giunti prima.


Retorica:

1)      È una radicalizzazione del linguaggio dialettico. Ne accentua la vena distruttivo-negativa.

2)       Elimina la sfera divina dal proprio universo di discorso. L’agone oratorio è mondano ancor di più della dialettica, addirittura sfrenato e privo di scrupoli, quando l’unico fine è il persuadere le folle di astanti e non la sapienza dei dialettici.

3)      Il protagonista (il fondatore) è Gorgia.

4)      Il suo luogo naturale è la pòlis evoluta del V secolo (es. Atene). I dibattiti politici molto partecipati, le dispute oratorie, la scrittura e la sua congenita tensione democratizzatrice (per cui chiunque può imparare a parlare e rendere conto di una tesi) sono elementi da cui non può prescindere.

5)      Il suo medium di esplicazione, la scrittura, insieme con altri suoi elementi, prepara il terreno per la filosofia di Platone. Le sue potenzialità si realizzano nella trattazione di temi politici e morali, diversamente dalla dialettica che si occupa di temi teoretici e astratti.

Colli conclude parlando della filosofia. Essa è un genere letterario nuovo che si esprime nella forma del dialogo, il cui padre è Platone. E’ la combinazione delle due esperienze storico-ideali della retorica e della dialettica, perché tratta rispettivamente sia di temi morali e politici (retorica) sia di temi teoretici astratti (dialettica). Platone si dichiara un “filosofo”, perché non “sapiente” ma “amante della sapienza”. La filosofia trae dalla dialettica la sua essenza intrinseca (il dialogo tra due interlocutori che mira alla sapienza), dalla retorica il suo medium (la scrittura) e la persuasione, finalizzandola però alla ricerca della verità. E’ meglio qui lasciar parlare Giorgio Colli:

“Platone dal canto suo è dominato dal demone letterario, legato al filone retorico, e da una disposizione artistica che si sovrappone all’ideale del sapiente. Egli critica la scrittura, critica l’arte, ma il suo istinto più forte è stato quello del letterato, del drammaturgo. La tradizione dialettica gli offre semplicemente il materiale da plasmare. E neppure vanno dimenticate le sue ambizioni politiche, qualcosa che i sapienti non avevano conosciuto. Dall’impasto di queste doti e di questi istinti sorge la creatura nuova, la filosofia. […]. La “filosofia” sorge da una disposizione retorica accoppiata a un addestramento dialettico, da uno stimolo agonistico incerto sulla direzione da prendere, dal primo presentarsi di una frattura interiore nell’uomo di pensiero, in cui si insinua l’ambizione velleitaria alla potenza mondana, e infine da un talento artistico di grande livello, che si scarica deviando tumultuoso e tracotante nell’invenzione di un nuovo genere letterario.”

Dunque, alla fine occorre fare una “summa”, ovvero chiarire quello che è il filo logico che soggiace alla trattazione del problema generale: “la nascita della filosofia”. Prima bisogna chiarire il quadro, la cornice interpretativa, entro cui si svolge la trattazione, che si può riassumere nella tesi secondo cui la filosofia è la combinazione letteraria, realizzata da Platone, dei due prodotti finali (dialettica prima e retorica poi) del lungo processo di umanizzazione e mondanizzazione dell’agonismo enigmatico-sapienziale-misterico-mistico che vedeva originariamente confliggere l’uomo e il dio (Apollo, Dioniso). Bisogna chiarire anche il presupposto interpretativo: si può dire che Colli, per risolvere il problema sollevato, prende in esame tutte le diverse incarnazioni dell’idea di “logos” che si sono avvicendate nel corso del tempo; in particolare quelle che fanno capo alla sapienza antica, alla dialettica, alla retorica e alla filosofia.



“I sapienti di questa età arcaica, e l’atteggiamento durerà sino a Platone, intendevano la ragione come un “discorso” su qualcos’altro, un “logos” che appunto “dice” soltanto, esprime una cosa differente, eterogenea.”



Dalla sapienza antica, in cui il rapporto uomo-dio si articola mediante un linguaggio enigmatico (“logos”: enigma, “pròblema”, che esprime la “frattura metafisica” tra uomo e dio), si passa allo scontro tra due divinatori (Calcante e Mopso). In seguito, la dialettica intacca il primato dell’agonismo sapienziale antico, mantenendo, in primis, un certo equilibrio tra la sfera positiva del divino (sapienza antica) e quella negativa dell’umano (dialettica); successivamente però l’agonismo si umanizza e mondanizza pressoché totalmente, quando già la dialettica è diventata retorica con Gorgia. Platone, come suddetto, combina virtuosamente retaggi diversi tramandati dal passato, quali la dialettica, la retorica e la sapienza antica. Quest’ultima viene assurta dal filosofo a ideale da riabilitare e a cui improntare il proprio stile di vita filo-sophico (“amante della sapienza”).



                                                                                                                                      Ugo Giarratano

domenica 3 agosto 2014

L'eredità di Keynes

Investimenti e supporto statale, la soluzione è sempre esistita

Paul Krugman e il suo monito ai governi, "Dedicato ai disoccupati che meritano di meglio"

Paul Krugman Premio Nobel per l'economia nel 2008
Un incubo che non ha mai fine, un tunnel buio senza uscita, ogni speranza spazzata via dalla cinica realtà. Tutto questo potrebbe essere riassunto in un singolo essere, la crisi economica. Se davvero fosse così, allora perché andare avanti? Non c'è soluzione, non c'è speranza, rassegnamoci, la crisi è più grande di noi. Sbagliato! L'uomo è sempre stato in grado di sopravvivere a qualunque ostacolo, di rialzarsi dopo la caduta, di immaginare nuove soluzioni, di evolversi e migliorarsi, facendo grandi cose, puntando in alto. Forse oggi abbiamo solo dimenticato tutto questo, abbiamo dimenticato lo spirito che da sempre ci ha contraddistinto, abbiamo dimenticato l'eredità dei nostri avi; alcune volte per andare avanti bisogna guardarsi alle spalle e sapere chi si è stati. Guardando al passato possiamo comprendere come la crisi economica iniziata nel 2008 non sia un essere mostruoso e imbattibile, non è un evento naturale e inevitabile come molti esperti vogliono farci credere. La crisi come l'economia è solo un prodotto umano con regole create da noi stessi, abbiamo solo perso il controllo e pertanto bisogna immediatamente riprendere in mano la creatura da noi creata. Deve tornare il primato della politica sull'economia, bisogna compiere delle scelte e non restare a guardare, per riappropriarci del nostro futuro. La soluzione non è lontana, anzi esiste già, ed è stata trovata da uno dei più (se non il più) grandi economisti della storia, John Maynard Keynes. Oggi la sua eredità sembrava essere scomparsa, con governi tecnici e politici imprigionati dalla paura, immobili sulla strada dell'austerità e riduzione del debito. Il pensiero di Keynes non è però defunto, grazie a una fronda di economisti (ora in aumento visto l'evidente fallimento dell'austerità) neo-keynesiani guidati dal celebre economista Paul Krugman, Premio Nobel per l'economia nel 2008. 
Nel suo libro "Fuori da questa crisi, adesso" del 2012, il professor Krugman svela le menzogne del debito pubblico, del deficit e del "laissez faire". La soluzione, come detto, esiste già ed è rappresentata dal finanziamento statale volto a riconvertire il ciclo economico negativo. Analizziamo ora nel dettaglio i punti finora espressi e dimostriamo la loro validità. Partiamo dalla prima constatazione compiuta dall'economista: vi è una sostanziale inerzia della politica, che non sembra trovare la determinazione, la forza, la fantasia per mettere in campo misure che determinino un inversione di tendenza, quasi accettando l'assioma che non resti altro che attendere la fisiologica evoluzione di un ciclo economico. La politica ha ignorato la tesi principale di Keynes secondo la quale l'austerità va praticata nelle fasi di espansione, non in quelle di crisi. Il governo dovrebbe spendere di più, non di meno, fino al momento in cui il settore privato non sarà nuovamente in grado di rilanciare l'economia. Al contrario l'austerità non fa altro che distruggere posti di lavoro. Senza questo intervento crollano i consumi, la produzione e si genera un incremento esponenziale della disoccupazione, soprattutto quella giovanile. I grandi esperti dell'ideologia economica egemone affermano invece che ciò non è auspicabile, in quanto bisogna avere una visione a lungo termine e attendere anziché aumentare debito e deficit nel breve. Questo è un grave errore al quale obbiettava già John Maynard Keynes:<<Questo lungo termine è una guida fallace per gli affari correnti. Nel lungo termine saremo tutti morti. Gli economisti si danno un compito troppo facile e troppo inutile se nelle stagioni tempestose sono in grado di dirci soltanto che quando la tempesta è passata da un pezzo il mare torna calmo>>. Ed aggiunge:<< Concentrarsi sul lungo termine significa ignorare l'enorme sofferenza che sta causando l'attuale depressione, le vite che sta distruggendo irreparabilmente>>.
John Maynard Keynes
Secondo Krugman un altro errore è dovuto allo spostamento d'attenzione, da parte dei governi, dalla disoccupazione al debito pubblico e al deficit di bilancio. Se il danno provocato dalla mancanza dei posti di lavoro è reale e gravissimo, non si può dire altrettanto del danno provocato dal deficit. Il punto fondamentale è che non conta l'entità del debito, 60-100-200% del Pil, ma la sua sostenibilità. Lo dimostra il Giappone, Paese nel quale il debito pubblico si attesta intorno al 236% del Pil e con un deficit al 10%, che ha optato per una espansione della spesa pubblica stanziando 170 miliardi di euro in un programma finalizzato a incentivi per investimenti in tecnologie avanzate, energia e ambiente, welfare, sostegno alle imprese, ricostruzione infrastrutturale post-tsunami, sicurezza anti-sismica. La sostenibilità del debito è quindi  fondamentale per non essere vulnerabili alle speculazioni finanziarie, questo è il motivo per cui Paesi come Italia, Grecia, Spagna sono più a rischio di Stati Uniti e Giappone. Ciò è dovuto all'assenza di una moneta sovrana con la quale è possibile comprare il proprio debito. Con questo non si vuole auspicare al ritorno ad una moneta sovrana poiché debito e deficit rimarrebbero insostenibili; la soluzione risiede nella riforma della Banca Centrale Europea in maniera tale che essa possa comprare i titoli di stato e quindi il debito dei Paesi UE, come la Federal Reserve negli Stati Uniti, sostenendo la spesa e innalzando l'inflazione al 4% per rilanciare consumi, investimenti e posti di lavoro. Arriviamo ora alla menzogna dell'austerità. Essa è una politica economica volta a ricreare la fiducia degli investitori, con tagli e diminuzione dei debiti per dimostrare la sostenibilità delle finanze pubbliche. In questo modo si innesca un circolo vizioso che produce effetti contrari a quelli prospettati. In un clima già privo di fiducia, dovuto alla crisi, l'austerità non produce investimenti poiché famiglie e imprese tendono al risparmio per paura di perdere il patrimonio nel corso della crisi e senza un incentivo questa paura non può mutare e la scelta più ragionevole rimarrebbe il risparmio. In questo modo crollano i consumi e di conseguenza la produzione, generando disoccupazione e impoverimento; lo Stato tagliando le spese per diminuire il debito contribuisce paradossalmente a farlo aumentare, poiché le sue entrate sono inferiori e la crisi economica non fa che aggravarsi, insomma un cane che si morde la coda. Tale tesi non viene volutamente accettata dalle alte sfere perché una politica monetaria espansiva manterrebbe i tassi di interesse al minimo e ridurrebbe gli introiti bancari e della finanza, la quale ha ormai un'egemonia non solo economica ma anche politica, impedendo una equa distribuzione della ricchezza. Ripartire dagli investimenti, questa l'eredità di Keynes che i suoi successori come Paul Krugman cercano di far rivivere. Non si può voltar le spalle alla sofferenza generata dalla crisi, alle disuguaglianze e alle ingiustizie; la soluzione a tutto questo è sempre esistita. E' necessaria solo la volontà di applicarla, per costruire il nostro futuro e tornare a puntare in alto.

Giorgio Mineo          

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