mercoledì 18 marzo 2015

OBBROBRI "MODERNI" IN TERRA PALERMITANA


Palermo città del capitale e della borghesia: considerazioni sulle "storie" locali di ieri, per superare la "Storia" mondiale di oggi.



La città di Palermo oggi risponde a quella che Marcello Fabbri chiama nel suo libro "l'urbanistica italiana dal dopoguerra a oggi" (1981) la "metropoli diffusa all'italiana", definendo quest'ultima come un misto di favelas latino-americana, da cui si distingue per la maggiore confortevolezza degli abitati, e di sobborgo suburbano all'americana, da cui differisce per la carenza di servizi di base. Fabbri parla di città caotiche, con periferie dispersive e sconnesse, segnate da un caratteristico "rumore semantico" e composte da quartieri disgregati fatti di palazzi organizzati per unità di vicinato e articolati per alloggi unifamiliari.






Da questa immagine emerge bene il contrasto tra la "storia" locale (casa di borgata sulla sinistra) e la "Storia" mondiale che vi si è sovrapposta con prepotenza: la cosiddetta "modernità" (palazzoni in serie sulla destra).
La realtà della Palermo di oggi è, secondo me, l'esito di due storie parallele che però non stentano a intersecarsi: da un lato la "storia" locale delle borgate contadine e marinare, della città borghese del liberty, dall'altro la "Storia" con la "s" maiuscola, quella della borghesia nazionale, o meglio, della piccola borghesia che informa di sè tutte le variegate culture regionali disseminate per l'Italia, quelle che l'avevano contraddistinta nella sua singolarità di "paese arretrato" (laddove si usa l'aggettivo "arretrato" c'è sempre un po' di ideologia), ovvero contadino e agricolo-manifatturiero. La "Storia" che condiziona Palermo è quella del secondo novecento, quella che si va definendo dal secondo dopoguerra, parte integrante delle logiche di "sviluppo", di "crescita", di "industrializzazione" che sono egemoni a livello mondiale in quanto espressione di un certo modello di produzione che negli USA ha trovato la sua massima realizzazione, quello capitalistico. Dal secondo dopoguerra, difatti, Palermo vive come caso locale il processo più ampio e generale di integrazione dell'Italia al mercato mondiale, quello scandito dagli aiuti del piano Marshall e concretizzatosi mediante l'adesione, a cavallo tra gli anni '40 e i '50, al Fondo Monetario Internazionale, alla Banca Mondiale, alla CECA e al Mercato Comune Europeo (i primi due sono istituti internazionali fondati e gestiti in misura preponderante dagli Usa: ricordo, i noti accordi di "Bretton Woods", promossi dall'unico vero grande "vincitore" della guerra). La II guerra mondiale ha sancito definitivamente il collasso dell'Europa come civiltà prepotente e preponderante a livello globale, a vantaggio degli USA, e l'Italia si appresta (non dimentichiamo, da paese sconfitto e conquistato dall'esercito statunitense) a "modernizzarsi", radendo al suolo tutta la sua eterogenea biodiversità umana, fatta di tradizioni regionali (addirittura provinciali se non paesane), di usi e costumi particolarissimi, di lingue diverse, di miti, credenze e saperi millenari, di metodi di produzione basati essenzialmente sull'agricoltura, di modi singolarissimi di costruire le abitazioni (pensate alle borgate contadine di cui oggi a Palermo restano solo degli spettri diroccati). Oggi di questo non rimane più niente nella nostra terra, dove regna solo la piatta omologazione: in tutta Italia non ci si distingue più per tratti caratteristici come poteva avvenire tra un "picciotto" borgataro di Palermo e uno "scugnizzo" di Napoli, dal momento che viene plasmato un unico stereotipo di uomo, lo "studente" formato nelle scuole dell'obbligo di matrice piccolo-borghese, pronto ad essere piazzato nel mercato del lavoro. Le culture di un tempo sono state cancellate e soppiantate da un'unica pseudo-cultura, quella scolastico-universitaria, astratta e libresca, che non ha nulla a che vedere con la molteplicità di culture pre-esistenti. Dall'eterogeneità delle culture contadine si è passati alla monocultura piccolo-borghese della scuola dell'obbligo e dell'università, del cittadino cosmopolita e apolide, individuo senza identità indottrinato al mantra lavoristico del "posto di lavoro fisso" (prima) e "precario" (ora), uomo intercambiabile e impossibilitato ad avere tempo veramente libero. Questa monocultura è qualcosa di estremamente fragile, perchè da un lato si risolve in un'attrezzatura tecnicistica di concetti e competenze funzionali al lavoro, dall'altro invece è sempre di più identificata con la "cultura generale", cioè è intesa come qualcosa di molto superficiale e formale, non come una pratica di vita (comunitaria in fondo), ma come una sorta di individualistica e astratta "scienza della cultura".

L'evento cruciale testimone di questa logica generale, a cui l'Italia si presta, è il piano INA-Casa (clicca qui) del '49, promosso e ideato dal democristiano Amintore Fanfani. Tale piano fu difatti finanziato coi fondi americani del piano Marshall. In questo articolo mi focalizzerò sulla "Storia" piccolo-borghese/capitalistica, fatta dal potere nazionale democristiano, che con il suddetto piano per la ricostruzione demarca il luogo fisico, la città metropolitana iperurbanizzata e iperaffollata, entro cui organizzare il capitale, il lavoro e i consumi privati, insomma il mercato mondiale di cui Palermo e le altre città devono rendersi partecipi. La "storia" delle borgate e del liberty perduto sarà l'altro aspetto fondamentale di riferimento. Alla fine tenterò di tirare le somme, tratteggiando delle prospettive di superamento dell'attuale modo di produzione fondato sullo sfruttamento dello "studente" aspirante lavoratore/consumatore.


Le borgate di Palermo: la loro importanza e i loro rapporti con l'edilizia residenziale pubblica dell'INA-Casa.


Per poter comprendere il significato della devastazione urbanistica, bisogna soffermarsi sulle due culture autoctone che furono bruscamente interrotte durante la seconda guerra mondiale e cancellate, a partire dal secondo dopoguerra, a causa dell'imposizione a livello nazionale di un unico modello di organizzazione sociale e di gestione della produzione che si orientava verso l'obiettivo di fare dell'Italia un paese compiutamente industrializzato e integrato al mercato mondiale (il tutto promosso dagli Usa: non dimentichiamo che loro hanno già un'industrializzazione compiuta e una società dei consumi di massa nei noti "ruggenti" anni '20, sono sempre i primi a ideare e realizzare tutto ciò che l'Italia e i paesi europei avranno dopo la guerra per via della loro egemonia: produzione industriale di massa col modello Fordista-Taylorista, società dei consumi ecc. ). Queste due culture sono quella borghese locale situata nella città antica cinta dalle mura (l'odierno centro storico), un tempo tappezzata di ville liberty, e quella contadina delle borgate rustiche che erano congiunte alla città per mezzo di una serie di camminamenti disposti a raggiera. Dopo la guerra il mercato mondiale doveva in qualche modo approdare in Italia e per fare ciò era necessario che ci fossero delle città in cui organizzare il capitale, il lavoro e i consumi; il potere democristiano, quello del quarto governo repubblicano, nonchè quinto governo De Gasperi, per tramite della figura importante di Amintore Fanfani varò un piano per la ricostruzione edilizia che fu approvato rapidamente già nel '49.

Da non perdere questa "commedia all'italiana" (10 minuti) del '56, anno dell'unanime approvazione parlamentare della proroga al piano fanfani del '49. 

(cit. dalla fonte): "Film di fiction del genere commedia all'italiana. Protagonisti di questo film - del genere "commedia all'italiana" sono due giovani italiani con il problema della casa. Lei fa la passafilm e controlla la qualità tecnica dei documentari in sala di proiezione. Il pretesto della passafilm, serve per inserire un documentario dal titolo "La casa per tutti". Attraverso le vicende dei due giovani, il film parla del piano casa di Fanfani, che ha costruito, attraverso la gestione Ina Casa, 150 mila alloggi dal 1949 al 1956. Il film si occupa, inoltre, dei contributi versati dallo Stato, dai lavoratori, dai datori di lavoro; dei diritti degli assegnatari."




La domanda da porsi è in che modo la Dc al potere, nettamente filoamericana (l'Italia era pur sempre il paese sconfitto), rispose al bisogno imprescindibile di casa degli italiani prostrati dalla guerra. Quale fu il progetto di società che la Dc attuò ? Secondo Amintore Fanfani, economista di fede keynesiana, l'obiettivo era di prendere quattro piccioni con una fava, ovvero di risolvere assieme il problema della vasta disoccupazione (cioè rimettere gli italiani al lavoro: c'era pur sempre stata la guerra fino all'altroieri), di dare una casa a tutti, di riavviare l'attività imprenditoriale (cioè di rivitalizzare il modo di produzione capitalistico infiacchito dalla guerra: non era mica comunista Fanfani) e porre le basi per una generalizzazione dei consumi privati. Dunque il piano democristiano era di puntare tutto sulla manodopera italiana, per mettere al lavoro tutti i reduci dalla guerra, cosicchè proprio questi ultimi si impegnassero (con ritmi di lavoro che furono impressionanti) a costruirsi da sè la casa. Questi lavoratori, nel contempo, davano forza-lavoro alle industrie edili locali (e annesse) permettendo loro di fare profitti, in più i primi percepivano anche dei salari che, secondo il piano stesso, dovevano impegnarsi a destinare, in parte, alla riuscita della ricostruzione edilizia nazionale. La sovvenzione statale era quella che permetteva al tutto di funzionare ed era basata su un sistema di contribuzione misto, a cui si aggiungevano i copiosi fondi del piano Marshall; inutile dire che col passare del tempo (il piano INA-Casa durò dal '49 al '63: gli anni del "boom edilizio") la costruzione ulteriore delle città fu lasciata all'iniziativa speculativa privata (ricordo che fino alla legge ponte del '67 si poteva edificare senza alcuna regolamentaziona in tutto il territorio extra-urbano). Dunque con una fava (il piano INA-Casa) il potere democristiano prendeva, non due, ma quattro piccioni, quelli che occorrevano per riorganizzare il nuovo corso che la vita degli italiani avrebbe dovuto avere: la casa (la città), il capitale, il lavoro, i consumi privati (che in ottica futura si sarebbero più che fatti sentire). Palermo partecipa di questo processo mediante l'intervento scoordinato dell'INA-Casa, dell'IACP (istituto autonomo case popolari, tutt'oggi esistente) e dell'UNRRA CASAS, come precisa Maria Isabella Vesco nella sua relazione al seminario dell'Istituto Gramsci Siciliano del 1983, intitolato "Le borgate di Palermo".



Nella sua relazione:

"L'INA Casa ed altri enti consimili realizzano alla periferia della città alcune unità residenziali a carattere popolare, che variano dimensionalmente dal singolo edificio al gruppo di due-tre, alla dimensione di piccolo quartiere, a quella di borgata. Questi intervanti non si attuano in una visione globale per il controllo della crescita urbana, basti pensare che tutte le attività dell'INA Casa, IACP, UNRRA CASA e di tutti gli altri enti consimili non sono inserite in alcuna forma di coordinamente pianificato. Con il solo criterio del basso costo dell'area vengono quindi localizzati vari interventi con conseguenze negative per la crescita razionale della città che si va configurando come un insieme frammentario senza rapporto alcuno tra i nuovi nuclei unitari "autosufficienti" e la città esistente. I nuovi quartieri vengono localizzati all'estrema periferia, per lo più in aperta campagna e nei pressi di qualche borgata, determinando da un lato le condizioni di estrema marginalità di quanto si va a realizzare e dall'altro provocando un incremento di valore di rendita di tutte quelle aree intermedie tra gli interventi e la città, aree che diventano così oggetto della speculazione con il sopravvento dell'edilizia privata su quella pubblica, basti pensare al quartiere ZEN e a Borgo Ulivi, uno ad est e l'altro a ovest della circonvallazione, che rappresentano due episodi limite della periferia della città di Palermo."




La "storia" locale di Palermo è fatta innanzitutto di borgate, l'elemento tipico che riflette le nostre radici storico-culturali, ma anche di ville liberty, senza tralasciare le borgate marinare con le tonnare, attorno alle quali si riunivano delle vere e proprie comunità di pescatori che praticavano la mattanza dei tonni, pesce tipico dei nostri mari. Anche l'artigianato era molto presente fino alla seconda guerra mondiale, prima che il mercato mondiale giungesse alle porte di Palermo portando industrie dei servizi, agricoltura industriale e centri commerciali che radunavano le più gettonate marche dell'abbigliamento (pensate a come si vestivano i vostri nonni [o bisnonni], di origini paesane, di borgata o anche di nobili orgini palermitane, e pensate poi a come si vestivano i vostri genitori coi quali noi giovani abbiamo in comune l'indumento comunissimo dei "jeans" americani, simbolo della mondializzazione dei mercati).


Pasolini

La "Storia" nazionale, che fagocita la nostra "storia" da cui siamo stati violentemente sradicati per via di interessi privati egoistici, è, come diceva Pasolini, la "Storia" della borghesia (dello Stato borghese) che pretende di essere l'unica e la migliore, che si presenta come la più attraente e la più appetibile per coloro che non vi appartengono, ossia i contadini, i pescatori, gli artigiani, i piccolo-borghesi che lavorano come impiegati o piccoli commercianti. Proprio questi sono quelli che durante il dopoguerra sciamano in massa verso la città, riempiendo i "palazzoni" che dal '49 erano già in costruzione e abbandonando la campagna, le formazioni sociali e i modi di produzioni tradizionali, riconducibili all'agricoltura. Si, perchè a Palermo l'idea di vivere in una città dotata di servizi pubblici (e privati) attira, come si può ben capire dopo le ristrettezze della guerra, in più la città in quegli anni critici era divenuta anche sede dell'Assemblea Regionale Siciliana, in ottemperanza all'istituzione dello Statuto Siciliano, e si andava terziarizzando. Dunque la città di Palermo si accoda al progetto generale che nella testa democristiana mira a ricostruire le città, dando alloggi unifamiliari stereotipati a bassissimo costo, servizi pubblici e privati come la scuola e l'ospedale, e in generale costituendo un ibrido di classe, non più partecipe del modo di produzione, ma impiegato nel settore terziario, cioè impiegato nei servizi. Come dice Hobsbawm nel Secolo Breve, la scuola dell'obbligo e l'istruzione universitaria di massa saranno congeniali alle esigenze sistemiche del capitalismo industriale che, espandendosi i mercati sempre di più e automatizzandosi esso stesso con gradualità, necessiterà maggiormente di "colletti bianchi" piuttosto che di "tute blu" o di "contadini". Questo ibrido sociale è la piccola borghesia, quella che oggi si chiama "ceto medio", frutto della rimescolanza di piccolo-borghesi puri e contadini, operai e artigiani inurbati e imborghesiti.


Dal discorso di Hobsbawm...
"A una valutazione meditata di questo dato non sembra poi così strano. La straordinaria crescita dell'istruzione universitaria, che all'inizio degli anni '80 produsse in almeno sette paesi più di centomila docenti universitari, era dovuta alla pressione dei consumatori, alla quale i sistemi socialisti non dovettero rispondere. I governi e i responsabili delle politiche di piano erano ben consapevoli che l'economia mondiale richiedeva molti più amministratori, insegnanti e tecnici che in passato, i quali da qualche parte dovevano essere addestrati e formai: l'università o le istituzioni educative di tipo universitario, per antica tradizione, avevano sempre svolto la funzione di formare il personale destinato alla burocrazia statale e alle professioni specializzate. Ma mentre questa necessità, insieme con una generale propensione a democratizzare il sapere, giustificava una consistente espansione dell'istruzione universitaria, la dimensione del boom studentesco eccedette di gran lunga i calcoli della pianificazione razionale."





Uno dei tanti volantini propagandistici della democrazia cristiana
 in occasione delle elezioni repubblicane del 1948.
 Fu una campagna elettorale violentissima.
In conclusione, a Palermo come nelle altre città la Dc riorganizza la vita sociale attorno al nucleo unifamiliare, a cui affida un alloggio a bassissimo costo modello INA-Casa, per far sì che abbia un luogo fisico da cui ricominciare a lavorare e a consumare, nell'ottica di una città che non deve chiudersi agli influssi del mercato estero. Il nuovo lavoro, difatti, che lo Stato democristiano borghese promuove è quello legato ai servizi di parte che esso stesso installa per tutto il paese, quei servizi come la scuola che dal '62 (scuola media unica obbligatoria) educherà i "figli" ad una "cultura" borghese ed esclusivamente cittadina, cosmopolita, ma soprattutto li indirizzerà verso il lavoro impiegatizio del terziario (in crescita costante dal '51 e pronto per il superamento dell'industria negli anni '70 [censimento Istat]). La scuola sarà il mezzo attraverso cui lo Stato borghese informerà di sè le alterità culturali, plasmando individui dall'etica lavoristica e consumistica, sempre più inclini a percepirsi come "cittadini del mondo" nell'era della "globalizzazione" dei mercati, piuttosto che come "zoticoni" campagnoli del luogo o pescatori "istupiditi e analfabeti", tanto per fare cenno ai luoghi comuni ideologici che si andranno a diffondere nel senso comune. Nel contempo il nuovo lavoro è anche quello d'impiego nei servizi privati di tutte quelle industrie che, a Palermo sono comunque per tradizione poco presenti ancora oggi (figuriamoci allora), ma che in tutte le città, nell'ottica dell'assolutizzazione degli scambi del mercato mondiale, si stabiliscono per sfruttare forza-lavoro.

Dunque, in questo articolo, metterò in evidenza come l'odierna condizione di sfruttamento, onnimercificazione e alienazione, rispetto a sè stessi, ai propri simili e alla natura, sia riconducibile alla logica mondiale, filoamericana, post-bellica di unificazione dei mercati, a cui l'Italia è stata assoggettata in quanto paese sconfitto e subalterno agli Usa e alle sue istituzioni sovra-nazionali di parte (Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale). Come dice Marx nel Manifesto del Partito Comunista, il mercato è l'arma attraverso cui si afferma la borghesia, il suo modello di vita coi suoi valori e il suo modo di produzione industriale, basato sulla generalizzazione del sistema di fabbrica.






"Le divisioni e gli antagonismi nazionali fra i popoli tendono sempre più a scomparire già con lo sviluppo della

borghesia, con la libertà del commercio, con il mercato mondiale, con l'uniformità della produzione industriale e delle

condizioni di vita che ne derivano."

(Manifesto del Partito Comunista, Marx-Engels)






Questa intuizione di Marx (incredibilmente profetica) si è realizzata in Italia negli anni '50-'60 di quello che l'ideologia chiamava e chiama "miracolo economico". L'integrazione dell'Italia al mercato mondiale ha comportato l'affermazione nazionale del modo di produzione industriale-capitalistico, che sovrasta e assimila quelli tradizionali agricolo-manifatturieri (locali) nel 1961 (ovviamente questa è soltanto la data rappresentativa del censimento Istat che registra formalmente un mutamento radicale già in atto nei decenni precedenti). L'egemonia di questo modo di produzione, come profetizza Marx, uniforma e omologa le alterità sociali, culturali, storiche, politiche, dando vita ad un'unica classe sociale, la classe media piccolo-borghese (impiegata nei servizi), caratterizzata da un'identità omogenea di aspirazioni, di valori, di prospettive di vita, e così via. Questo significa anche che in Italia cessano di esistere le "ideologie", facendosi strada in politica un conservatorismo rilassato, tipicamente borghese e centrista (Democrazia Cristiana). Questa acculturazione borghese, che oggi forse dà segni di cedimento strutturale (chi lo sa, magari decisivo...), si è svolta per il tramite del consumismo con la relativa ideologia edonistica permissiva e lassista che ha omogeneizzato le persone, rendendole uguali nel modo di vestirsi (oggi a Palermo come a Milano, in un contesto operaio come in uno medio borghese, si trovano moltitudini di ragazzi o ragazze che indossano le "nike" o le "converse", per fare un esempio qualsiasi tra i tanti), di parlare (morte dei dialetti e utilizzo di un italianuccio scolastico e anonimo), di comportarsi, di pensare la vita, di vedere le cose, di divertirsi ecc. Questa omologazione è avvenuta grazie al consumismo di massa, fondamentale per la sussistenza di una produzione industriale altrettanto di massa, oggi multinazionale e compiutamente mondializzata in Italia, non più quindi come prima, quando ancora prevaleva una produzione nazionale. Questo processo che ha condizionato e condiziona le nostre vite, il nostro modo d'essere e di comportarci, di guardare alla vita come alle relazioni interpersonali, lo attenzionerò relativamente al tipo di casa, quindi di città, che si presenta come l'oggetivazione di questa acculturazione borghese, industrial-capitalistica, consumistica. La casa e la città come forme ideologiche che materializzano questi processi cruciali. La borgata e la villa liberty di ieri da un lato, personificazioni della "storia" e della "cultura" (locali) di Palermo, e il palazzone brutto e anonimo di oggi dall'altro, personificazione della "Storia" e della "Cultura" (mondiali) borghesi che si sono imposte sulle altre. Vediamo che ne viene fuori.

Passiamo subito alle borgate. Quali sono le loro origini ? Perchè sorgono e come ? Quando inizia la loro decadenza ? In che modo oggi si può percepire la giustapposizione della "Storia" alla "storia", guardando un vetusto e diroccato edificio di borgata accanto ad un "palazzone" dell'INA-Casa ?


Francesco Renda è stato uno storico palermitano di una certa importanza di impostazione marxista, in particolare perchè ha militato nel partito comunista, sostenendo la causa dei contadini durante gli anni della riforma agraria e muovendosi anche a stretto contatto col sindacato. Ha insegnato storia moderna alla facoltà di lettere e filosofia di Palermo, dedicandosi alla storia del movimento contadino, della mafia e della città di Palermo. Nel seminario suddetto del 1983 Renda fu il primo relatore e tratteggiò un quadro d'insieme della storia delle borgate palermitane che, tra l'altro, all'interno delle ricerche congiunte con la facoltà di architettura, furono considerate il nodo centrale della problematica urbanistica di Palermo, il punto cruciale sul quale discutere per prospettare una sorta di "recupero in chiave nuova" della città dai danni della speculazione, secondo nuove metodologie architettonico-urbanistiche.


Renda nella sua ricostruzione:

"Il mio lavoro è stato direttamente finalizzato all'indagine delle origini del sistema delle borgate di Palermo, e vorrei chiarire di fronte a un pubblico che è assai più competente di me di queste cose, che il sistema delle borgate di Palermo (adopero il termine "sistema" nel senso proprio del termine) è tale da distinguersi nel panorama generale del sistema urbanistico e dello sviluppo demografico della Sicilia e del Mezzogiorno in genere. Voi sapete che una caratteristica delle regioni mediterranee in generale - e parliamo di cose di casa nostra - è che a differenza delle regioni del Centro-Nord, lo sviluppo delle campagne, lo sviluppo demografico e quindi lo sviluppo insediativo, si è realizzato per sistemi accentrati. Quindi noi abbiamo nelle campagne non case sparse, ma città contadine, città che sono di 1000, 2000, 5000 abitanti; ma città che oggi hanno raggiunto, come Marsala, 100'000 abitanti, in origine erano città contadine."

"[...] la storia urbanistica di Palermo comincia nel momento in cui la popolazione di Palermo esce dalle mura, dato che Palermo è una città cintata, e si insedia nella campagna. Grosso modo fino all'avvento dei Borboni (1734-35) e ancora per qualche decennio, la città di Palermo era tutta concentrata dentro le mura, fuori vi erano alcuni episodi particolari che sono stati ampiamente studiati, tra i quali le ville, in modo speciale, ma anche i bagli, le casene, i conventi, le chiese, eccetera; ma di un processo insediativo non si poteva parlare; i lavoratori che andavano a lavorare le terre nel contado di Palermo abitavano in città, e quindi tutte le mattine e tutte le sere facevano l'andirivieni che è tipico dei paesi della Sicilia; come voi sapete in Sicilia il contadino non abita in campagna, abita in città, parte la mattina per andare a lavorare, e torna la sera. Questo sistema era anche a Palermo fino ad una buona metà del '700. L'avvenimento ufficiale che segna l'inizio di questa nuova storia è quando il pretore di Regalmici, presso la porta di S.Antonio, apre uno squarcio nelle mura, e inizia l'espansione della città verso la campagna; è un'espansione la quale è caratterizzata da un processo che dura circa un secolo e mezzo, per cui parte della popolazione palermitana dalla città città si trasferisce in campagna."

Prima del settecento, Palermo non aveva partecipato, tra il '500 e il '600, dell'immenso processo di urbanizzazione che aveva coinvolto la Sicilia intera con la costruzione di circa 150 paesi. Palermo era, difatti, territorio demaniale, cioè privo di spazi giuridizionali autonomi, gestiti da baroni o principi. Quel fenomeno di urbanizzazione fu proprio avviato dai poteri baronali locali che invece a Palermo non avevano margine d'azione, ragione per cui la città non vi partecipò (l'unica eccezione fu Trabia).

Il lasso di tempo fondamentale, in cui si pongono le premesse per la nascita delle borgate, è quello che va "da una buona metà" del '700 in poi, il fattore scatenante che rende obbligatoria la migrazione di massa dalla città è l'aumento demografico generale del 50%. Aumentano le bocche da sfamare, si proliferano gli spazi insediativi nell'agro palermitano, si mettono a coltura nuove terre, si migliorano le tecniche di coltivazione per venire incontro ai nuovi bisogni di maggiore cibo e anche di una più sana alimentazione.

"Il secolo XVIII è un secolo di grande trasformazione, soprattutto è un secolo di grande sviluppo demografico, e la popolazione siciliana aumenta di un buon 50 %; ovviamente questo significa bocche da sfamare in più, case da offrire, ma significa anche una maggiore quantità di braccia da lavoro, significa anche un miglioramento del tenore di vita, della salute, dell'alimentazione; vi è cioè un periodo in cui dal vecchio involucro feudale qual era l'economia siciliana, si ha un processo di transizione che poi porterà ad una città, ad una società moderna, un processo di crescita e di trasformazione contemporaneamente."

Dunque i contadini migrano dalla città, ma numerosi sono anche quelli che provengono dal resto della Sicilia (occidentale, in particolare), e si costruiscono nell'agro circostante Palermo (quella che sarà l'ottocentesca Conca d'Oro) i propri insediamenti (le borgate) attorno ai quali gestiscono la vita agricola collettiva. Iniziano ad impiantare oliveti, agrumeti, frutteti vari, viti, orti ecc., specializzano le colture e affinano le tecniche di coltivazione. Nell'Ottocento avviene la "transizione" di cui parla Renda, da un modo di produzione feudale, in cui l'aristocrazia residente nella città murata percepisce le proprie rendite, ad un modo di produzione "moderno", cioè capitalistico, gestito da una borghesia possidente cittadina che si riflette nei suoi edifici "liberty" e che reinveste la rendita nel miglioramento delle colture. Tale modo di produzione prende la forma di un rapporto per l'appunto capitalistico tra città e campagna (questo è quello che chiamiamo "Conca d'Oro") in cui i prodotti delle coltivazioni rustiche sono convogliati, trasformati, usati e anche esportati in seno allo spazio cittadino della Palermo "storica".

"L'agricoltura siciliana tra la fine del '700 e la fine dell' '800 va incontro ad una profonda trasformazione, la cui valutazione oggi è oggetto di critica, non è grande da parte della storiografia, volendone misurare l'intensità e la consistenza; ma la trasformazione c'è stata. Il feudo, quanto meno, ha perso rilevanza, quasi il monopolio che aveva avuto in precedenza. Ecco, nel contado di Palermo, in questa campagna palermitana incomincia l'impianto prima della vite, e degli orti; nasce quindi la necessità che ad accudire a queste colture specializzate, che richiedono manodopera numerosa ma anche specializzata, si provveda dal punto di vista dell'insediamento in modo diverso. Le case, che poi si raggruppano nel sistema di borgate che via via si costruiscono nella campagna, corrispondono appunto a questo bisogno. L'espansione della città di Palermo per conquistare la campagna circostante, nella fase in cui la Sicilia passa dal sistema feudale al sistema borghese, questa espansione, che partecipa allo stesso processo di trasformazione, realizza un diverso rapporto con la campagna; quindi nella Conca d'Oro, attorno a Palermo, si realizza un rapporto città-campagna che io voglio definire come rapporto non di tipo meridionale, non di tipo feudale, ma un rapporto moderno, capitalistico a tutti gli effetti."

Dunque, le borgate rispondono al bisogno di organizzare anche la vita sociale attorno alla produzione agricola e iniziano a vivere "un processo di decadimento" (cit.), di "deperimento" e di "perdita di identità" nel '900. Come dice Renda:


"Queste città che sorgono, quindi, fuori dalle mura di Palermo, sono città che dal punto di vista architettonico forse hanno scarso valore, sono ininfluenti, non sono composte da manufatti pregiati, manufatti che possono attirare l'attenzione dell'artista o dello storico dell'arte, o dello stesso architetto, sono fatte di case che seguono il modello della casa siciliana; tuttavia queste case hanno di caratteristico che sono abitate da contadini, dai vecchi contadini di Palermo che via via escono fuori dalla città, ma anche dai contadini che vengono dalla provincia nella città."
E ancora:


"Queste borgate quindi hanno un'origine essenzialmente rurale, sono al servizio della trasformazione agraria del territorio di Palermo, e quando dopo il 1860 Palermo conosce una certa fase di sviluppo industriale, che poi viene troncata definitivamente dalla sopravveniente crisi, alcune di queste borgate diventano anche borgate di tipo industriale, cioè borgate attorno a qualche manifattura, a qualche fabbrica (oltre alle borgate di antichissima tradizione che sono quelle marinare)."
Verso la fine conclude dicendo:

"Se noi dovessimo guardare le cose con l'occhio di oggi [1983], diremmo che probabilmente oggi le borgate non hanno più l'importanza che hanno avuto nel '700 e nell' '800, che c'è un degrado, ma c'è soprattutto questa espansione a macchia d'olio del centro storico che praticamente sta distruggendo le borgate. Con riferimento al passato, le borgate sono una parte importante della storia urbanistica di Palermo, oltre che della sua storia sociale e politica, e penso che questa affermazione vada discussa, perchè se si è d'accordo vengono fuori una serie di questioni."

Ma, nei fatti, cosa ci direbbe una borgata se potesse parlare ? Di quale potere sconfitto è testimone ?


Immaginiamo con l'ausilio delle foto di imboccare via Galletti, la via centrale attorno alla quale si snodano i due bracci della borgata marinara "
Acqua dei Corsari". Il nome è dovuto ad una leggenda secondo cui dei corsari avrebbero trovato salvezza grazie ad una cospicua sorgente d'acqua, detta "'a funtaniedda".

In fondo iniziano i due bracci della borgata "Acqua dei Corsari"
Cosa ci dicono le voci riecheggianti dalla "storia" passata, scolpite nei muri scalcinati e nei balconcini pericolanti di questa borgata sopravvissuta ? Forme cristallizzate di una vita che non c'è più, barbaramente assimilata dalla "Storia" recente dei "palazzoni" borghesi dell'edilizia residenziale pubblica. Intanto, viene da chiedersi: quale rapporto con la natura e i propri simili trapela ancora, come lo si potrebbe arguire guardando un templio agrigentino su una digradante collina, dall'ossatura architettonico-urbanistica di questa borgata ? Guardiamo intanto la strada, la cerniera fondamentale che lega i due lembi longilinei di casette molto basse e attaccate l'una all'altra. Come dice Giuliana Tripodo nella sua relazione "Nuove forme di classificazione" (seminario dell' '83), la strada è lo spazio in cui si concentra la vita comunitaria, è la via lunga che collega tutte le case, in un tutt'uno compatto e coeso, in più (aggiungo io) spingendo chiunque vi passi a incontrare e a salutare ogni compagno di borgata, magari fermandosi per chiacchierare del più e del meno, forse del mare, del tempo, dei raccolti o della pesca, chi lo sa.

"In questo caso [si parla della borgata "a forma lineare"] la strada è l'unico spazio di relazione della borgata e molto spesso gli stessi fatti emergenti (chiesa, convento, badia, ingresso alla villa padronale...) riprendono l'allineamento su strada, distinguendosi mediante il valore segnico degli elementi (la gradinata, l'arco, il portale, diversificazione dei materiali di rivestimento, presenza di modanature, etc...) o con un allargamento della sezione stradale (vedi Pallavicino)"



La strada come "luogo sociale", adesso pesantemente condizionata
 dagli elementi urbanistici "moderni"




Le case sono tutte incollate l'una all'altra, segno di stretta vicinanza e di comunità di vita tra gli abitanti, è come se una casetta fosse il prolungamento dell'altra, sino a formare una lunga e leopardiana "social catena". La casetta-tipo è a misura d'uomo e aperta verso l'interno della strada, a pochissima distanza da quelle laterali e prospicienti; ci sono delle casette monofamigliari, ma è soltanto un'illusione perchè è come se fossero un tutt'uno che si rigenera e rinnova quotidianamente al momento dell'incontro coi propri vicini. Non sono abitazioni isolate, con "individui" (nel senso liberale del termine, più vicino al cittadino geloso del proprio spazio privato, "negativo", d'esistenza), ma casette parche e sobrie abitate da "persone" (nel senso cristiano-sociale del termine, che indica un modo d'essere e di vivere "comune", fatto di intense e sistematiche relazioni interpersonali, che divengono in qualche modo la base imprescindibile del proprio vissuto). Da questa borgata, di tipo "lineare", emerge una visione corale del vivere; gli uomini, lì un tempo viventi, non erano divisi in sfruttati e sfruttatori, non erano precondizionati e ingabbiati dalle istituzioni "Storiche" borghesi, quelle che nell'Italia industriale del "miracolo economico" si affermano perentoriamente, sino alla triste condizione servile odierna. Parlo della scuola dell'obbligo, dell'università di massa, del lavoro individualistico e ipersocializzato, della famiglia cellulare cristiana, del "tempo libero": tutti schemi istituzionali omologati ai quali si viene subdolamente conformati, volenti o nolenti. In più in un ambiente come quello della borgata appena osservata non sussiste alienazione, nè rispetto alla natura nè rispetto ai propri simili, per cui vivere in una casetta di questo tipo significa fare due passi e trovarsi subito a stretto contatto con i propri simili, fare quattro passi e inoltrarsi già nella natura, lasciandosi carezzare dalla brezza spirante dal vicino mare.


Una vecchia casa nelle sue condizioni originarie,
accanto ad altre due ristrutturate

La Tripodo nella sua disamina morfologica della borgata:

"In massima parte ritroviamo borgate che si sono generate lungo un asse viario di penetrazione alla campagna - a distanza variabile fra i tre e i quattro chilometri dalle porte della città antica (solo le borgate oltre la Piana dei Colli distano all'incirca il doppio) - attestandovisi nei casi più semplici "in forma lineare", e solo i alcuni casi "a grappolo", mentre in casi particolari già con caratteristiche di tessuto."


In queste tre didascalie troverete i  tre tipi morfologici di borgate:


Borgata di tipo lineare (es. sotto: Villagrazia)



"Al variare della struttura di base corrispondono rapporti differenziati con il non costruito, alle diverse scale: per cui nel sistema lineare semplice ritroviamo la strada come elemento primo al quale vengono affidate tutte le relazioni sociali della comunità, caratterizzando l'unità abitativa con ambienti di soggiorno direttamente su strada (la porta-finestra protetta da persiana si fa interprete di questa permeazione con l'esterno)[foto con la porta finestre], mentre il fronte chiuso del retro (a meno di piccole finestre o affacci di logge) sottolinea la non corrispondenza in proprietà e in uso della campagna retrostante. Solo in alcuni casi si ha sul retro una fascia ad orto o cortili, di mediazione con la campagna e i giardini. Quando alla residenza è legato il possesso del giardino vediamo che l'abitazione di rado e posta sull'asse viario portante della borgata, ma in genere si arretra nella campagna e si conforma secondo sistemi chiusi quali bagli, ville, casene... (tutt'al più porta su strada il segno dell'arco di ingresso del baglio o del viale). La borgata di Villagrazia ne è un chiaro esempio."



 

Borgata "a grappolo" (es. sotto: Chiavelli)

"Spesso però ritroviamo attaccata "a grappolo" al sistema lineare d'impianto, una struttura articolata a cortili: è un sistema che ritroviamo a Chiavelli, ma anche all'Uditore, sulla via Mammana, e all'Acquasanta. Rappresenta un sistema complesso di relazioni fra lo spazio privato della casa (in questi casi ridotta alle dimensioni minime delle unità rurali) e lo spazio collettivo (il cortile) attorno al quale è posta anche tutta una serie di ambienti che dovevano essere di supporto alla vita agricola e al piccolo artigianato che caratterizzava la vita della borgata (magazzini per il deposito del materiale e degli attrezzi, ma anche per il ricovero degli animali e luoghi di trasformazione dei prodotti agricoli). Era la struttura insediativa che faceva riscontro ad un'economia rurale domestica che spesso affiancava l'attività agricola sui campi, coinvolgendo il nucleo familiare nella sua interezza (donne, anziani, ecc.). Il cortile era pertanto lo spazio che prolungava all'aperto alcune attività domestiche (il bucato, il rigoverno...) e nello stesso tempo rispondeva ad alcune attività produttive. In questi casi il sistema è costituito dall'insieme del nucleo a cortili e il rapporto con la strada, mediato dal cortile, è sottolineato spesso da un passaggio coperto: così pur non determinando soluzione di continuità sul fronte viario, contrassegna la presenza del nucleo a cortili con l'elemento distintivo arcato."

Borgata con caratteristiche di tessuto (es. sotto: Arenella)

"Nel terzo caso, di impianto già con caratteristiche di tessuto, vedi ad esempio l'Arenella, ma anche il nucleo a fuso dell'Uditore, l'unità edilizia - quasi sempre a due piani - organizza spesso spazi minimi di vita all'interno dell'alloggio, con un rapporto con la strada non diretto ma mediato (il portone e il balcone assumono valore di segno distintivo della casa). L'occupazione del lotto non è più semplice, ma in molti casi diventa doppia con unità edilizie disposte a spalla, con l'affaccio su strada corrispondente alla dimensione di una stanza (per 1 vano e mezzo in profondità). Nei casi del doppio affaccio, il fronte su strada corrisponde a due vani (per due vani e mezzo in profondità). La strada su cui si apre l'alloggio non rappresenta il luogo che definisce tutte le relazioni sociali, ma solo quelle di vicinato, mentre ritroviamo il ruolo della piazza (come piazza della Tonnara all'Arenella, o piazza Uditore e piazza della Chiesa...) come centro dei servizi della borgata. In questi casi ritroviamo tutta una ricchezza di connotazione dei luoghi urbani mediante l'uso dei valori prospettici e della contrapposizione fra sistemi elencali e sistemi chiusi (vedi l'asse prospettico che lega le due piazze dell'Uditore, o la sequenza del fronte a mare dell'Arenella)."



Un esempio di "palazzone"
E un "palazzone INA-Casa" di ieri quali impressioni ci dà ? Quale potere un tempo vincente, ora in attesa di trovare il suo carnefice, rappresenta ?


Maria Isabella Vesco: "Attraverso lo studio degli insegnamenti di edilizia pubblica degli anni '50 in Italia e in modo particolare, per quanto riguarda queste note, delle esperienze palermitane, si possono individuare i termini del problema già citato in altre relazioni come "crisi della tipologia" che, al di fuori dello slogan, deve intendersi come scollamento tra cultura sociale e cultura specifica attraverso un non equilibrato rapporto tra quantità e qualità."
(cit."Le "borgate" degli anni '50 a Palermo")

Cesare Ajroldi: "La risposta all'inadeguatezza della strumentazione non può che fondarsi su un'elaborazione teorica che qui si esplicita (che ha origine dagli studi di Giuseppe Samonà) origina dalla necessità di una profonda trasformazione nel processo di progettazione architettonico-urbanistica, nel senso di un ridimensionamento della componente, che possiamo chiamare tipologica, composta di norme, standard e più in generale della conoscenza tecnica su cui si basa il progetto architettonico e che può essere codificata e tramandata; questo ridimensionamento deve avvenire a favore della componente legata al sito in cui si compie il processo progettuale, e che possiamo chiamare morfologica."

(cit."Verso una progettazione legata al luogo")
Palermo - Delcampe.fr
 Uno  squarcio di vita quotidiana, coi pescatori di borgata (Sant'Erasmo)
che scaricano i tonni sulla terraferma.
Questo è un esempio di "storia" e insieme di "cultura"
locali...
Il problema dei palazzoni INA-Casa, come spiegano con lucidità Vesco e Ajroldi, è riconducibile all'astrattezza dannosa del metodo tipologico praticato paradigmaticamente dal dopoguerra in poi per la progettazione delle nuove città, sia nel caso del piano regolatore sia in quello del piano INA-Casa. I palazzoni presenti oggi a Palermo sono stati progettati seguendo questo "scollamento tra cultura sociale e cultura specifica", ovvero tra la storia e la cultura locale e la scienza architettonico-urbanistica (borghese), fatta di schemi tipologici quantitativi e funzionalistici, di norme invariabili, di statistiche e di formulazioni teoriche universali e generali, di natura logico-deduttiva. Questo scollamento tra cultura sociale e cultura specifica è, in più (aggiungo io), il sovrapporsi prepotente della "Storia" e della "Cultura" borghesi sulla "storia" e "cultura" locali, sempre riconducibile al processo di integrazione dell'Italia al mercato mondiale. Il paradigma tipologico, in virtù della propria astrattezza di forme, di colori e di tecniche, si rifugia velatamente sul terreno dell'ideologia di classe, dunque diviene il mezzo stesso attraverso cui si afferma la borghesia come unica cultura sulle altre, nella misura in cui (a Palermo, nella fattispecie) fa rivalere il proprio modello di casa (e di città) su quello dei contadini o dei pescatori (viventi nelle borgate da loro stessi costruite) e su quello della vecchia borghesia locale (aristocraticheggiante), incarnato dai palazzi ottocenteschi e dalle ville liberty. Affermare questo modello di casa e di città (presentandolo, tra l'altro, come falsamente universale e formale) significa far valere in realtà un particolare modo di produzione (quello industrial-capitalistico) sugli altri, ma significa anche riconfigurare le altre classi sociali, ed è per questo che nella nuova città INA-Casa si spostano masse enormi di contadini, operai, artigiani, pescatori prossimi ad assimilare i valori e i modelli di vita borghesi. Costruire delle case, delle città, non è per niente neutrale, anzi, è un'operazione altamente ideologica, di parte, effettuata secondo certi criteri finalistici di organizzazione sociale.
Sant'Erasmo oggi. Di ciò di cui si è parlato nella foto precedente non resta nulla,
solo qualche palazzone che attesta l'ormai da tempo avvenuta
acculturazione borghese, che non ha colpito solo gli usi, i costumi,
la mentalità, i comportamenti, il modo di vivere e di produrre ecc.,
ma anche il modo di concepire e di fare le case...
 Così come la casa di borgata rappresentava un certo modo di produzione, essenzialmente agricolo-artigiano e fu costruita dai contadini stessi per organizzare autonomamente e collettivamente il lavoro nei campi (e simili), la casa di città INA-Casa rappresenta un altro modo di produzione fatto di attività istituzionali di parte, con la differenza che tale modo di produzione non è gestito coralmente e autonomamente, come quello della borgata, bensì solo da ristretti interessi privati, che gestiscono i mezzi di produzione. Le attività suddette, che vanno a costellare un certo modello di vita, sono il lavoro, il consumo, la scuola dell'obbligo, l'università di massa, la famiglia mononucleare ecc. ecc. In questo modo va a cambiare anche la cultura che diviene in questo caso la sola esistente: quella borghese.

Ma come si può afferrare la natura ideologica del modello tipologico ? In che modo la sua astrattezza, ponendosi problemi di ordine puramente teorico, si presta nei fatti ai fini sistemici della cultura borghese e del modo di produzione capitalistico ?

Innanzitutto, il metodo tipologico ricorre a canoni teorizzati dal Movimento Moderno che ben si prestano all'organizzazione capitalistica dello spazio, a causa della loro istanza funzionalistica e razionalistica (e la natura ideologica del movimento e della tipologia si tradisce a maggior ragione nelle schematizzazioni formali spacciate per universali) . Sorto dopo la Grande Guerra, con l'intento di ripristinare il senso della razionalità e della funzionalità dopo il caos irrazionalistico del conflitto, in Italia si presenta come "Razionalismo Italiano", una corrente a dir poco unitaria e parecchio disarticolata, che era stata organica al fascismo, perciò artefice di opere pubbliche considerevoli. A Palermo ci sono molte testimonianze in tal senso: il palazzo delle poste su tutti è il più noto ed evidente edificio razionalista, ed è inutile chiedersi perchè. Dopo la guerra il neorealismo architettonico si propone di conciliare il processo di modernizzazione cui è soggetto il paese con le tradizioni locali, cioè, rispettivamente, la cultura borghese egemone con le culture locali e altre.

Ajroldi mette in rilevo, nel seminario dell' '83, l'importanza capitale di mutare paradigma, passando dalla tipologia alla morfologia legata alle culture locali. Fa da sfondo a questo seminario l'allora mobilitazione da parte di Giuseppe Samonà che aveva teorizzato un superamento della tipologia, facendo una serie di studi proprio sul centro storico di Palermo, di carattere eminentemente morfologico. Questi studi furono esposti nel cosiddetto "Piano Programma". La novità del metodo morfologico, promosso da Samonà e da questo seminario, consiste nella valorizzazione della storia e della cultura dei siti locali, facendo riferimento alla qualità, alla formalità e alla relazionalità dei centri abitati. Il difetto di fondo di questo approccio consisteva e consiste nel non tenere conto dell'ormai avvenuta e compiuta distruzione delle culture locali, la cui riabilitazione, sotto forma di sola rivitalizzazione architettonico-urbanistica, non sarebbe stato altro che un dannoso anacronismo. La problematica, difatti, non è posta sul piano socio-economico, dunque sul piano del modo di produzione, di cui quei siti, le borgate, erano attori e promotori.

A Palermo i principali interventi di edilizia residenziale pubblica di matrice tipologica-neorealistica, in ordine cronologico, sono (cit. Maria Isabella Vesco):
Villaggio Ruffini, 1950-53

Quartiere di via Parlatore (via Sciascia, via Adria, via Furitano), 1950

Quartiere Malaspina-Notarbartolo, 1951

Quartiere Noce-Notarbartolo, 1959

Quartiere dell'Arenella (via Papa Pio XII), 1952

Rione delle Rose, 1953-58

Quartiere Palagonia, 1953-58

Quartiere Zisa-Quattro Camere, 1954

Quartiere S. Rosalia est e ovest, 1954-70

Borgo Ulivia, 1958-74

Borgo Pallavicino, 1958

Quartiere Tasca Lanza, 1959

Quartiere Bonvicino (Villa Turrisi), 1961

Quartiere Passo di Rigano (Via Castellana), 1963

Borgo Nuovo, 1960-68 (progettato negli anni '50)

Andiamo a vedere in che modo questi quartieri incarnano, correlativamente ai canoni tipologici del neorealismo architettonico espresso dagli opuscoli dell'INA-Casa del '50 e del '51 (<Movimento Moderno), l'ideologia borghese, la sua "Storia" e la sua "Cultura" che pretendono di essere le migliori e le più benefiche, il suo modo di produzione che si vende come Assoluto , il suo modello di vita che si osanna come il migliore e l'unico possibile.



E' comunissimo trovare a Palermo contrasti grotteschi,
come questo,tra "Storia" mondiale
(palazzone "moderno" sulla sinistra)
 e "storia" locale (edificio ottocentesco sulla destra) 
Intanto, come spiega la Vesco nella sua relazione, "Le realizzazioni di questi anni ['50] nascono a Palermo come risposta ad un sempre crescente fabbisogno di abitazioni; sono gli anni in cui inizia un forte processo di spostamento dai piccoli centri verso la città a causa del processo di terziarizzazione di questa, accentuato dalla formazione dell'amministrazione autonoma della Regione e dalla concomitante crisi dell'agricoltura tradizionale". I nuovi quartieri esulano da una logica progettuale globale della crescita cittadina "che si va configurando come un insieme frammentario senza rapporto alcuno tra in nuovi nuclei unitari "autosufficienti" e la città esistente". In più vengono costruiti "all'estrema periferia, per lo più in aperta campagna e nei pressi di qualche borgata...". E ancora: "La scarsa attenzione con cui i progettisti guardano alle relazioni con il contesto (metodo comune dell'operare di questi anni [anni '50]) determina la disgregazione della periferia urbana, che è all'origine della mancanza di riconoscibilità della forma della città nel suo insieme...". A proposito degli assunti tipologici del Movimento Moderno: "La riconoscibilità non è solo un fatto planimetrico: l'applicazione di alcuni assunti del Movimento Moderno che andavano affermandosi in Italia in quegli anni, tra cui l'insolazione e l'indipendenza tra edificio e strada, determina alcune delle caratteristiche che rendono subito riconoscibili questi quartieri anche quando, come ora, essi sono inglobati nel tessuto urbano. Tali assunti, formulazioni della cultura specifica, sono alla base di questi progetti che, come accennato, mancano per lo più di relazioni con il contesto territoriale e sociale, cui si sovrappongono come corpi estranei."
I canoni tipologici dell'INA-Casa sono perfettamente funzionali al riorganizzarsi del modo di produzione capitalistico, che nel secondo novecento fa della città una metropoli sede dei servizi terziari pronta mediante gli stessi a gestire il lavoro impiegatizio e il consumo; difatti come dice la Vesco: "I meccanismi di costruzione della città sono astratti, e gli elementi che vi si possono leggere sono tipologie e standards, intendendo questi ultimi solo come rapporto quantitativo tra casa e servizi".


Il quartiere isolato dal contesto e "autosufficiente" è, assieme all' "unità di vicinato", la base da cui si parte sistematicamente. "L'unità di vicinato, come nucleo base della progettazione di molti quartieri, è infatti elemento derivato non tanto dalle esperienze tedesche o olandesi ma piuttosto dalla cultura empirica scandinava e anglosassone cui, in questi anni, si guarda con interesse. L'oscillazione tra razionalismo ed empirismo, condizione tipica della cultura degli anni '50, porta alla sopravvalutazione della composizione planimetrica del quartiere, sempre considerato però come nucleo chiuso, mai risolto come sistema di relazioni urbane". L'idea espressa dagli opuscoli dell'INA-Casa era che si dovesse ricreare dal nulla, mediante i quartieri e le unità di vicinato collocati in periferia, quindi artificiosamente e artificialmente, la dimensione di sapore comunitario e conviviale tipica dei paesi, da cui tra l'altro provenivano le frotte numerose dei migranti nel dopoguerra. L'idea era questa ed è per questo che si prescriveva negli opuscoli una maniacale attenzione per i "problemi psicologici", per quella che la Vesco chiama un' "esasperata ricerca dello spontaneo", per la "personalizzazione dell'alloggio", laddove non si parla anche di "salute morale" ecc. I suggerimenti spaziavano inoltre dalla scelta dei colori a quella dei materiali. L'esito fu la creazione di "quartieri" e "borgate", "sempre più isolati rispetto al resto della città, con spazi di relazione di piccole dimensioni che vogliono ricordare l'immagine del paese di antica memoria." Dunque i quartieri si pongono in relazione al contesto territoriale di pertinenza in termini assolutamente razionalistici e funzionalistici, seppure i progettisti vari tentino di coprire in qualche modo la loro estraneità, facendoli tutti di colori diversi, per evitare la monotonia, o ricorrendo a materiali locali per simularne l'appartenenza culturale autoctona.




Un altro contrasto...
Tuttavia, il piano di ricostruzione edilizia a Palermo che, come emerge da uno studio congiunto di Riva Sanseverino, durò nei fatti (per via delle comprensibili inefficienze e disfunzionalità amministrative dovute ad una gestione centralizzata statale) dal '49 sino al '70, seppur ufficialmente si fosse concluso nel '63, fu un esempio marchiano di deturpazione urbanistica e naturale. Non soltanto si costruirono quartieri anonimi, creati negli astratti laboratori della tipologia, mettendo su una città caotica, brutta, dispersiva e senza capo nè coda, ma si disseminarono per la stessa palazzoni bigi e manieratamente colorati, senza tenere conto che poi, tra l'altro, dopo l'impulso iniziale della sovvenzione statale, l'espansione della città fu affidata al mercato anarchico dell'edilizia privata (il cosiddetto "boom edilizio"), patrocinato dalla mafia. In molti contesti, le inefficienze e i disguidi dovuti ad una gestione scoordinata e centralizzata del piano di ricostruzione portarono alla sovrapposizione e sedimentazione caotica di progetti diversi, vedi il caso emblematico del quartiere Malaspina o del quartiere Notarbartolo, dove si ridussero drasticamente le aree verdi e i servizi quando le Ferrovie dello Stato espropriarono una zona consistente per costruirvi la linea ferroviaria Palermo-Trapani.


La nostra città è il frutto, in primo luogo, del processo di integrazione al mercato mondiale, che richiedeva l'assimilazione di un modo di produzione industriale avanzato (capitalistico), in secondo luogo, della speculazione edilizia che verso la fine degli anni '50, passando nei '60, vide come protagonista indiscussa la mafia, con al potere figure losche e conniventi di estrazione democristiana, se non direttamente mafiosa, e il riferimento va a Gioia, Lima e Ciancimino. La "Storia" dello sviluppo borghese-capitalistico ha distrutto e cancellato dalla faccia della terra le culture e le storie locali, rovinando o eliminando del tutto borgate, abbattendo ville liberty e palazzoni ottocenteschi ecc., al cui posto è stato impiantato lo stereotipo generalizzato del "palazzone", sistemato in quartieri anonimi e astratti dal contesto e in unità di vicinato. Ma andiamo alla "casa" in senso stretto, agli alloggi. Come sono stati pensati e costruiti ?

C'è un passo, estremamente significativo e suggestivo in tal senso, estrapolabile dalla relazione di Felice Alfredo Sturiano:

"In una sintesi tanto affrettata da essere al limite del lecito, direi che dai valori ancestrali connessi alla casa-recinto incorporanti significati magico-rituali-sacrificali della casa presso le civiltà mesopotamiche e della domus greco-romana, giù giù - per fatti di cultura sempre più mediati - fino alla casa a tre corti di Mies, in cui casa=abitazione=spazio=luogo di vita di una famiglia, siamo passati diagonalmente attraverso la nozione di casa come alloggio-cellula per n persone del razionalismo, con l'esito finale, nel risvolto della disciplina sulla cultura sociale, di identificare il tutto con la nozione di spazio chiuso e volutamente segregato di appartamento, la cui soglia - letteralmente - pone già una barriera fra il singolo nucleo familiare e il suo intorno più immediato del condominio-palazzo: il cerchio così si chiude irrimediabilmente trasferendo nel consumo privato tutte le formidabili valenze del sociale e incanalando il disagio dei ceti privilegiati verso la polverizzazione a tappeto di un tessuto residenziale a villini e villette, supposto alternativo alla città densa."

La casa diviene un "alloggio-cellula a n posti", parte integrante di palazzoni condominiali da cui si estranea a tal punto da incapsularsi e impermeabilizzarsi del tutto. Le case "moderne" della razionalista borghesia italiana, sulla scia di quella europea, sono l'emblema dell'individualismo introverso e atomistico, quintessenza della società stessa nella sua totalità che in Italia, tradizionalmente, ma per lo più su iniziativa della Dc, fu ricostruita dopo la guerra attorno al polo centrale della famiglia mononucleare. Essa fu pensata come "cellula" di generalizzazione e riorganizzazione del lavoro e dei consumi, in un contesto nuovo di terziarizzazione dell'ambito cittadino, riconducibile all'esigenza, da parte del Capitale industriale italiano post-bellico, di avere "lavoratori intellettuali", produzione e consumi di massa. La casa, dunque, nel suo ovattamento di forma e di funzione si isola, rappresentando, non soltanto l'uomo senza identità odierno che vive in appartamenti ("appartati" per l'appunto) datigli secondo una forma già stereotipata e inespressiva, ma anche l'individualismo, il familismo e il corporativismo che costituiscono la quintessenza del modello di vita borghese uscito e rassodatosi all'indomani del "boom economico"; va da sè che la casa diviene il luogo in cui il consumismo e il lavorismo si realizzano quotidianamente.



Dice Sturiano a proposito di quel ripiegamento individualistico e familistico della società, di cui i palazzoni sono la manifestazione e il luogo naturale:

"Inoltre nella rincorsa verso una specie di "maximum vivendi" che sembra surrogare il vuoto degli spazi esterni socializzanti, e in quanto tali significanti, l'atteggiamento più diffuso diventa quello di dilatare oltre il necessario lo spazio interno della casa, ciò che si traduce nell'aumentare artatamente le cubature o predisporre tutto perché questo possa accadere in un secondo tempo. Vengono così a generarsi - sulla scia di una serie incontrollabile di bisogni indotti - assurdi criteri di uso dell'abitazione nella quale si allarga paurosamente la fetta di spazio "congelato" per fini vagamente rappresentativi: il salotto "buono" e il pranzo grande, spessissimo arredati con mobilio in stile; la cucina alla "americana" quasi mai adoperata; il bagno "principale" organizzato per "zone" attraverso capziosi dislivelli del pavimento. Di contro si riduce in maniera inversamente proporzionale la soglia di spazio realmente vissuto tutti i giorni: il cucinino, il tinello-pranzo, il wc-lavanderia; la casa rischia allora di diventare una strana sequela di scatole cinesi dove solo l'ultima - la più piccola - è l'unico vero contenuto che non contiene altro da sé."

La forma della casa, dunque, trasuda, o meglio, è l'oggettivazione dello stile di vita borghese vittorioso sulle altre culture un tempo esistenti e viventi nelle borgate, nelle ville liberty o nei palazzi ottocenteschi; questo stile di vita è appartato (< "appartamento"), introverso (nel senso che si svolge principalmente all'interno dell'abitazione, incapsulata e isolata rispetto all'esterno) e familistico (l'alloggio è "unifamiliare", cioè pensato per accogliere un nucleo familiare cellulare). La casa-palazzone INA-Casa di ieri è anonima, inespressiva e priva di identità come lo era il tipo di uomo che andava formandosi e massificandosi negli anni "opulenti" del "miracolo economico" italiano, in cui si consuma quel processo di radicale acculturazione borghese sempre ricollegabile al processo di affermazione del modo di produzione industriale sugli altri e all'integrazione al mercato mondiale. Le case-palazzoni che oggi ci sono tramandate in eredità non fanno che rinnovare di generazione in generazione quel vuoto di identità, di valori, e di conseguenza, di espressione autentica di sè riconducibili alla massificazione, avvenuta dall'alto dello Stato, di quei valori borghesi stessi trasmessi alle classi sociali tradizionali, quella contadina e quella operaia, imborghesitesi e ridottesi a sacche polverizzate di impiegati piccolo-borghesi.

Oggi, in una società in cui regnano diffusamente l'insoddisfazione, la frustrazione, l'infelicità, la nevrosi, l'insicurezza, la frenesia e lo stress, dove la criminalità assume caratteri truculenti e sempre più velati dall'indifferenza, i palazzoni di oggi si rendono testimoni e guardiani di un certo progetto politico di ieri che ha portato l'Italia dall'essere un paese ricco di biodiversità umana, di culture e storie eterogenee, all'essere un paese industriale avanzato, terziarizzato, iperurbanizzato e globalizzato come gli altri paesi industriali, popolato dall' "uomo-tipo" omologato, lo studente aspirante lavoratore, privo di identità e di autentiche capacità di relazionarsi, pronto ad essere piazzato sullo scellerato mercato del lavoro e del consumo. Questo è il retaggio di vuoto che ci rimane, anche solo impresso nelle forme tristi dei nostri palazzoni, divenuti, assieme agli altri spazi cittadini, dei veri e propri non-luoghi senza senso.

Ancora Sturiano riguardo a quanto appena detto:

"Facilmente poi essa [l'alloggio/abitazione] perde quella sottile filigrana di relazioni con l'insieme delle altre case, con la strada il vicolo e il cortile, col suolo col fronte e col retro, con l'ambiente naturale e artificiale; in una parola: con tutti quegli elementi che stabiliscono le coordinate di un intervento realmente localizzato."

In più:

"Dove è venuta a mancare la spinta alla rivalutazione autonoma dello stabile da parte di chi lo abita, e a questa non sia subentrata una concentrazione della proprietà e un processo di radicale sostituzione o ampliamento, allora spesso il degrado edilizio è vistoso, accompagnandosi tale degrado delle condizioni abitative ad una parallela perdita di valori antropologici, quali pesanti movimenti migratori esterni ed interni, invecchiamento della popolazione residente, decadimento dei caratteri socio-ambientali, drastico abbassamento del livello delle necessarie relazioni interpersonali - ad esempio di vicinato - all'interno della comunità."



In conclusione, il paradigma tipologico neorealista, filiazione italiana del Movimento Moderno, è stato il parametro-guida che ha informato di sè le progettazioni e le costruzioni dei nostri quartieri. Un paradigma che gli architetti relatori al seminario criticano nella sua neutralità (contrapponendogli un altrettanto accademico e astratto, seppur in misura minore, metodo morfologico), ma che io ritengo essere stato la forma ideologica che dietro la sua astrattezza ha celato e promosso gli interessi della classe borghese, dunque del modo di produzione industrial-capitalistico, bisognoso di avere delle città metropolitane molto dense e affollate, al fine di organizzare il proprio progetto di una società industriale avanzata con consumi di massa, quale l'Italia poi diventerà col "boom" (fino ad oggi). La città di Palermo, come le altre, è la città del Capitale, perchè nella sua ricostruzione è stata assoggettata alla norma implacabile della mercificazione. Una casa di borgata o una villa liberty non erano delle merci, dei prodotti stereotipati fabbricati serialmente come lo sono i palazzoni di ieri e di oggi, erano prodotti originali e singolari, unici, espressivi, artistici, perchè dichiaravano, col loro aspetto, la loro forma, i loro colori ecc., la propria identità, o meglio, l'identità di chi ci abitava e della comunità che li produceva. Le ville liberty o le borgate erano espressione pura e originale di una cultura libera e autonoma nei suo valori; non erano merci anche per un altro motivo, perchè il rapporto sociale che intercorreva, al momento della progettazione e costruzione, tra "chi le faceva" e "chi le finanziava" era un rapporto di conoscenza reciproca (o di identità e comunità, come nel caso delle borgate), interpersonale, opposto a quello impersonale e burocratico sussistente tra i progettisti e costruttori di ieri (INA-Casa) e di oggi. Sono di gran lunga migliori una villa liberty, un palazzo ottocentesco o un edificio di borgata, piuttosto che un orribile, noioso, anonimo e insignificante palazzone INA-Casa, che non fa altro che ricordare ai posteri che il potere dei consumi, dello sviluppo, del Capitale, del lavoro è riuscito a creare l'uomo omologato, senza nome e senza identità, plasmato con successo dalle istituzioni borghesi quali la scuola dell'obbligo, in primis, e i media di massa, in secundis. Ma perchè criticare il modello di casa e di città in cui viviamo ? Perchè ? Fondamentalmente perchè è un modello che perpetua e preserva lo sfruttamento odierno a cui siamo soggetti inconsciamente, laddove la forma delle nostre case, in virtù della loro estraneità rispetto al resto del mondo cittadino, ci aliena rispetto ai nostri simili e alla natura che ci circonda, impedendoci di vivere bene e dare un senso nostro alle nostre vite, anzi riducendoci al rango di lavoratori frenetici e monotoni o di consumatori compulsivi, eternamente frustrati e insoddisfatti, oltre che privi di vera e autentica libertà di scelta. La casa, la città, la scuola, il lavoro sono delle forme istituzionali che riconosciamo in quanto valide, volenti o nolenti, più per inerzia, e che racchiudono il germe complessivo dello sfruttamento, dell'alienazione e della reificazione omologante di cui i tristi palazzoni sono testimonianza obiettivata. Non si fa che parlare per ora della "barbarie" dei "brutti, sporchi e cattivi" dell'ISIS che distruggono opere d'arte, nient'altro che "mostri deplorevoli". Ma, lasciando perdere le macchinazioni dell'ideologia mistificante che prospera sulla strumentalizzazione ad arte di questi episodi, posso dire che noi non siamo da meno. Abbiamo sterminato tutte le culture locali che un tempo erano disseminate per l'Italia, abbiamo eliminato modi di produzione alternativi, asfaltato modelli di vita e valori diversi dai nostri, oggi soli e smarriti nella loro falsità sconcertante di estrazione borghese; qui a Palermo abbiamo distrutto, infangato, violentato la Bellezza artistica come neanche un "teppista" dell'ISIS potrebbe, perchè non avrebbe abbastanza immaginazione.
Abbiamo deturpato e cancellato dalla terra borgate, ville liberty, orti, giardini, frutteti, agrumeti, abbiamo reso la Conca d'oro un pallido ricordo, anzi l'abbiamo resa soltanto un nome per uno squallido centro commerciale! Nossignore, noi siamo meglio e peggio dell'ISIS, siamo maestri insuperati, anche capaci di fare ironia sugli obbrobri che abbiamo combinato. Almeno loro "lo fanno per Allah", noi l'abbiamo fatto e continuiamo a farlo per indifferenza o per apatica dissociazione, per soldi e per profitti.


Prospettive costruttive di massima...




La dimensione della borgata non è affatto marginale, perchè sino alla seconda guerra mondiale ha costituito un ancora vivace modo di vivere (una forma di convivenza a tutti gli effetti, con i suoi valori e le sue istituzioni), ma anche un fiorente modo di produzione basato prevalentemente ora sulla pesca (borgate marinare: Sferracavallo, Mondello, Arenella, Acquasanta, Vergine Maria, Santa Lucia, Sant'Erasmo, Acqua dei corsari, per citarne alcune tra le tante...) ora sulla coltivazione specializzata di giardini tappezzati di agrumeti, frutteti vari, viti, oliveti, ortaggi vari ecc. (borgate rurali: Villagrazia, Tommaso Natale, Pagliarelli, Chiavelli, Ciaculli, Croce Verde, Uditore, Pallavicino, Partanna...). Come dice Renda, insomma, il mondo rurale delle borgate era un vero e proprio modo di produzione che nell'Ottocento si rese protagonista della trasformazione in senso capitalistico dell'agro palermitano, fino a dar luogo a quella realtà che passerà alla storia come "Conca d'Oro". Dopo l'Unità d'Italia ci saranno episodi modesti e sporadici di sviluppo in senso manifatturiero di alcune borgate, tuttavia tale barlume di paleoindustrializzazione verrà stroncato definitivamente con la crisi di fine ottocento. Dai primi del '900 in poi il mondo delle borgate, con relativo modo di produzione, inizia a declinare. Le ville liberty rappresentano l'altro mondo particolare che accoglie invece la borghesia palermitana cittadina, realtà quest'ultima che, sempre come precisa Renda, nell'ottocento adempie alla fruizione, alla trasformazione ed esportazione dei prodotti coltivati, con tecniche avanzate e specializzate, nella Conca d'Oro. Questi due mondi furono acculturati dalla nuova Palermo piccolo-borghese del secondo dopoguerra, quella dei "palazzoni" INA-Casa (edilizia residenziale pubblica), congeniale al processo di integrazione forzata dell'Italia al mercato americano. Processo che imponeva certe condizioni vincolanti: sviluppo, industrialismo, lavorismo impiegatizio, consumismo. In questo progetto non c'era spazio per "sottoculture" come quella contadina, proletaria e artigiana.

Possiamo dire che la figura umana del contadino-artigiano che organizzava la sua vita nella borgata, praticando l'agricoltura o la pesca specializzate (nell'Ottocento), abituato a vivere coralmente la propria vita (in comunità raccolte "a misura d'uomo"), immerso nella natura, è stata assimilata bruscamente dallo Stato piccoloborghese del dopoguerra, quello tanto criticato (a ragione) da Pasolini. La nostra "storia" locale, che fino alla seconda guerra mondiale procedeva per conto proprio, è stata schiacciata e assorbita dalla "Storia" borghese che ha diffuso per tutta l'Italia le proprie istituzioni di parte (come la scuola dell'obbligo, il lavoro [individualistico] ecc.) attraverso i "palazzoni", forme ideologiche per nulla neutrali e assolute, ma rispondenti ad un certo progetto storico promosso dalla classe sociale predominante. Ed ecco che l'Italia da paese agricolo-manifatturiero e pre-moderno è stata omologata sotto il peso di un'unica cultura (quella borghese) che ha dichiarato universalmente e necessariamente valida l'integrazione al modello globale americano di produzione, di vita sociale e di cultura, e qui entra in gioco l'annessione al mercato mondiale, perfezionatasi già al volgere degli anni '60, che, sempre come dice Marx nel manifesto, è l'arma potentissima [il mercato] della borghesia, con la quale abbatte regimi, culture, tradizioni, ordini sociali e di produzione. Il modello invalso oggi è quello della città metropolitana tappezzata di blocchi condominiali reiterati sistematicamente e disordinatamente, "moderni" e "borghesi", popolata da "individui" cittadini del mondo globalizzato, alienati gli uni rispetto agli altri, versati in attività lavorative "intellettuali", cioè impiegatizie e slegate dalla produzione diretta dei beni primari, e alienati rispetto alla natura circostante, ridotta ad una colata di cemento, a qualche sparuto giardinetto o giardino senza nome, sparso per la città, o ancora a isola museale di ristoro per chi voglia passare un po' di "tempo libero". La città-tipo italiana, di cui Palermo partecipa, è inquinata, trafficata, rumorosa, ricolma di immondizia, iperaffollata e iperconcentrata in poco spazio.

Ma viene da chiedersi: perchè ad un certo punto, durante il secondo dopoguerra, fiumane numerosissime di persone si spostarono in città, abbandonando la campagna in generale ? Perchè ? Erano degli incoscienti ignari del destino borghese che li aspettava ?

Per nulla. La guerra è l'evento esiziale che crea una frattura e una ferita insanabili, è una discontinuità radicale che segna nel profondo chiunque l'abbia vissuta, lascia strascichi di violenza, di fame, di povertà materiale, di dolore, di perdite affettive. E' un cataclisma dal quale non si può fuggire. Per capire l'essenza di ciò che Palermo fu, come caso particolare, al momento della sua acculturazione borghese, consolidatasi a partire dal "miracolo economico", bisogna proprio considerare quest'ultimo e collegarlo con quello che era stato al tempo l'immediato passato: il fascismo. Il fascismo, Salò, la resistenza, l'occupazione americana, la devastazione dei luoghi ovunque ci si guardasse, ma soprattutto il fascismo e la violenza della guerra. Come può sorgere da un'umanità segnata nel suo modo d'essere dagli anni del fascismo e della guerra un "miracolo economico", dove non si faceva tutt'altro, e ancora oggi retoricamente, che osannare la rinascita dell'Italia, spacciandone il successo industriale a vantaggio di pochi capitalisti per un successo universale, spirituale, fatto di benessere totale e felicità realizzata dopo le miserie della guerra ? Dopo la guerra a Palermo approdano in massa contadini e tutti gli sfollati costretti ad errare per la Sicilia a causa dei conflitti; la prospettiva di vivere in città, al sicuro, piuttosto che tornare alla campagna, è troppo allettante, comprensibilmente. In città ci sono servizi, e poi c'è la casa che la Dc si accinge a ricostruire, c'è lavoro, reddito, possibilità di vivere in tranquillità dopo il putiferio destabilizzante della guerra; non è un caso quindi che si formino nuovi strati sociali sempre più protesi verso l'ibrido della piccola borghesia impiegatizia, in futuro grande protagonista passiva, incline al conservatorismo centrista in politica (che si traduce in Dc), al quieto vivere (si comincia a percepire la democrazia, come si fa generalmente ancora oggi, quale semplice "libertà"), alla "normalità" tranquilla, fatta di un lavoro fisso, di una famiglia rassicurante, di ferie da riempire con viaggi "turistici" o di "weekend" da utilizzare per farsi qualche gita verso le campagne o il mare, che divengono i nuovi luoghi rituali di "villeggiatura".

Ma perchè capire da dove veniamo ? Perchè importa sapere qualcosa sul nostro passato di borgate (e di ville liberty!) ?
Beh, perchè, prima dell'acculturazione borghese, c'era una "storia" locale libera, nel senso più autentico e completo della parola. Essa era assolutamente equivalente e di valore tanto quanto quella "Storia" borghese che ancora oggi è il nostro pre-destino comune. Non è una novità che una cultura prevalga sulle altre, è avvenuto ai tempi dei greci, dei romani, è avvenuto in america, dove le culture locali "indiane" sono state falcidiate e trucidate dalla prepotente cultura occidentale (oggi stanno in delle umilianti e tristi "riserve": prima assoggettati e sterminati, poi ridotti a "bene naturale da salvaguardare"... ). La storia è anche volontà di potenza, è anche il dibattersi di culture discordanti e diverse, solo che in questo scontro, come è accaduto nel nostro caso, ha vinto una cultura sulle molteplici altre che sussistevano in Italia: quella borghese, che si è fatta strada col suo modo di produzione industriale, con le sue istituzioni di parte spacciate per universali e necessarie, con la sua idea di mercato, prepotente e in perenne espansione. Dunque importa sapere quali sono le nostre radici storico-ideologiche perdute, per rettificare il cammino storico che ci è stato imposto e che ci viene imposto surrettiziamente oggi, privandoci di una vera libertà di scelta che non sia quella di scegliere un prodotto o un altro al supermercato o una facoltà universitaria invece che un'altra.
Oggi in un universo univocamente e totalitariamente borghese-capitalistico non ci rimane che immetterci con spirito creativo e inventivo in un destino storico diverso, partecipando di quella "storia" mandata in rovina dalla "Storia". Recuperare quella "storia" non significa tornare indietro, anche perchè è fortunatamente impossibile, piuttosto significa riappropriarci della nostra libertà, ponendo fine al destino di sfruttamento, di alienazione, di reificazione e di mercificazione universali, di noi stessi e della natura che ci circonda (della quale siamo parte integrante, volenti o nolenti).

Meditare sulla "storia" palermitana, fatta di radici culturali originali e singolari nel loro genere, non significa soltanto spendere qualche parola sulla borgata in sè o sulle ville liberty, come lo potrebbe fare un noioso critico d'arte, un accademico professore di architettura o uno storico (mestierante) navigato e consumato. Significa piuttosto interrogarsi sul duro compito d'esser uomini in questo mondo, cercando di scoprire da dove veniamo e verso dove possiamo e vogliamo andare, superando tutte le pastoie repressive e invalidanti che la vita istituzionale del "tu devi" ci impone, quella di "sistemarsi" con un posto di lavoro sicuro per sopravvivere, e di vivacchiare delle briciole di tempo libero che ci vengono concesse dall'alto dei cieli del mercato mondiale o della burocrazia dei servizi statali (anche qui non il bene di tutti, ma di alcune cerchie di interessi che necessitano della socializzazione frenetica del lavoro). Dunque scoprendo la "storia" si comprende anche, per contrasto, la "Storia", quella dello "sviluppo", della "proprietà privata", dell' "industria", della "piena occupazione", che viene presa per assoluta, e non per storia (per l'appunto); cioè la storia delle comunità borgatare o delle comunità borghesi, fatte di valori locali, di concezioni del mondo particolari, di modi di produzione della vita stessa del tutto singolari e ineguagliabili, è stata soverchiata da un tipo di storia che ha sciorinato come necessaria una cultura posticcia, quella piccoloborghese esclusivamente urbana (quella decadente del ceto medio di oggi), propinando come imprescindibili e assolute certe istituzioni, come la "scuola", l' "università", il "lavoro" (impiegatizio, nella fattispecie), il "danaro", la "famiglia" (di matrice cristiana, patriarcale, eterosessuale ecc.), creando aborti orrorrosi come il "tempo libero", elargito in veste di gentile concessione in funzione del lavoro stesso. Il punto è capire che questa "Storia" non è l'unica storia possibile, che ci sono tante storie che possiamo inventarci per vivere bene, in piena e autentica libertà, trovando la pace interiore. Perchè la vita è arbitrarietà e anarchia pura, può essere qualsiasi cosa "tu vuoi", oggi invece ci hanno convinto che essa è essenzialmente un frustrante e omologato "tu devi".

Per me meditare su quella che è stata la "storia" della mia terra, così poco conosciuta e così tanto fraintesa e bistrattata, significa capire cosa ho (e forse abbiamo) perso ed è soltanto afferrando ciò che ho perso (ancor prima di averlo, tra l'altro) che posso ideare un modo creativo, per lo più una via di massima da seguire, per gettare nel dimenticatoio della storia quella "Storia" borghese di cui sono figlio, quel mondo in cui sono stato e siamo gettati che si presenta oggi sotto forma di una monocultura, un modo di produzione (quello industriale-capitalistico), un modello di vita, una intuizione della vita, un modo di vestire, di parlare, di pensare... Oggi prevale l'omologazione universale che ha prodotto per la prima volta nei fatti l'utopia del "cives mundi", cittadino formale senza un'identità propriamente culturale, la cui esistenza è un perenne "essere di passaggio" in non-luoghi a lui estranei e indifferenti, come lo possono essere i mezzi di trasporto pubblici o la scuola o l'università o il posto di lavoro. Oggi langue una ristagnante categoria di studenti, proletariato di oggi, che vivono (sin dalla scuola) per essere addestrati a lavorare con spirito di competizione, produttività ed efficienza, nel mercato del lavoro impiegatizio, in veste di lavoratori intellettuali al servizio di burocrazie pubbliche o private che siano.

E' bene sapere cosa c'era prima nel mondo palermitano (in senso esteso mi riferisco anche all'agro circostante etc.), quali modi di produzione alternativi sussistessero; non c'erano scuole dell'obbligo, nè università di massa, nè "lavoro" per come lo intendiamo noi oggi, nè "tempo libero" annesso, una malata invenzione della società industriale avanzata. L'obiezione da aspettarsi è quella per cui prima si viveva in povertà, da rozzi zoticoni, "analfabeti", "incolti", campagnoli sempliciotti. C'è da dire, intanto, che se si vuole lottare per la libertà di decidere veramente della propria vita, ciò che io credo sia impossibilitato del tutto oggi in questa società globalizzata, metropolitana e capitalistica, bisogna guardare avanti creando nuovi valori e nel contempo nuovi modelli di produzione della vita, senza riproporre (tra l'altro sarebbe impossibile e neanche auspicabile!) i vecchi valori e i vecchi modelli di produzione, ma cercando di ricollegarsi con originale creatività e inventiva alle radici, alla tradizione da cui siamo stati strappati bruscamente dalla modernità industrial-capitalistica (quella della mondializzazione progressiva dei mercati e della supremazia prorompente della proprietà privata). E poi, vorrei dire un'altra cosa: l'analfabetismo è un'invenzione della borghesia liberale che utilizzava, ad esempio nell'Italia post-unitaria, il criterio dell'istruzione (coincidente con la "cultura"), oltre che del censo, per ammettere al grado di cittadini coloro che aspiravano al diritto di voto. Ma l'analfabetismo era ed è ideologia pura, ideologia borghese, che bollando le altre culture, come quella contadina, di essere analfabete, coglie l'occasione per affermare se stessa e la propria cultura (il proprio modello educativo, di uomo, che si traduce essenzialmente nella formula del "cittadino libero ed eguale"). Dunque la scuola non è nulla di necessario, nè lo è il lavoro che si è affermato oggi, quello borghese, individualistico, del tutto superfluo. Si può dire che come l'abitante di una borgata palermitana dell'ottocento stava alla vita agricola in veste di contadino, un abitante della Palermo degli anni '50 (quella dell'INA-Casa), come delle altre città in costruzione, stava negli anni cruciali del "boom" economico al modo di produzione industriale avanzato in veste di "lavoratore intellettuale" (o impiegato se preferiamo, comunque sia in veste di produttore di servizi). Quello che voglio dire è che l'odierna città di Palermo, esito dell'obbrobbrio dell'INA-Casa, è sede di un certo tipo di uomo, il "borghese" che lavora in veste di colletto bianco, conservatore in politica, abbarbicato al quieto vivere, ligio ad un'etica insieme lavoristica e consumistica, servo delle burocrazie dei servizi statali, di cui fa impersonalmente parte, servo delle industrie private per cui lavora o "libero professionista". La mentalità imperante è quella dell'adattamento, la "razionalità strumentale" del "tu devi", per cui i fini esistenziali che ci vengono sottilmente imposti (chi non lavorerebbe o si farebbe una famiglia per "sistemarsi", seppure magari a modo proprio?) sono "assoluti","incontrovertibili" e "inoppugnabili". Laddove ci viene detto sempre "tu devi", laddove diciamo "io devo...(studiare, lavorare ecc.)" ci palesiamo nella nostra condizione di sfruttati eterodiretti ed in fondo il motivo per cui c'è bisogno di criticare e contestare radicalmente il nostro odierno modo di vivere in società è proprio questo, che è stata creata un'umanità (ovunque si guardi) infelice, nevrotica e schizoide, snervata, frustrata e insoddisfatta, umorale e repressa dai doveri sociali che le vengono imposti (lo studio e il lavoro). Solo un mondo in cui ognuno di noi dirà "io voglio" sarà veramente libero e in pace.

In sintesi, posto che l'attuale modo di produzione industrial-capitalistico avanzato, con l'annesso mercato assolutizzato e mondializzato, è la causa della condizione di sfruttamento, di alienazione e insieme di reificazione universale delle persone, in particolare della classe degli studenti, la quintessenza materiale di questo sistema è la proprietà privata che onniprivatizzando la terra ha prodotto una situazione, quale quella odierna, in cui c'è una concentrazione oligopolistica a livello mondiale dei mezzi di produzione che sta distruggendo il pianeta, esautorando le persone della propria autentica libertà di decidere della propria vita (volendo anche qui fermarcisi a questo...). Senza il superamento della proprietà privata non ci può essere vera libertà, perchè una volta che fu resa vendibile e comprabile sul mercato si è concentrata in poche mani, condannando la moltitudine dei non possidenti a subire le direttive di chi l'ha avuta (in virtù delle proprie condizioni finanziarie "più fortunate") e oggi continua ad averla.

Limitatamente alla realtà di Palermo, una via di emancipazione e di riappropriazione della propria vita può essere una mobilitazione collettiva degli studenti che, prendendo coscienza di sè come classe sfruttata, iniziano a coagularsi sul piano della "società civile" in cooperative-comunità di produzione che rimettano a coltura i terreni abbandonati, sopravvissuti alla speculazione edilizia. C'è la formula del "comodato d'uso gratuito", adottata a Palermo dal Codifas per aprire i propri orti urbani condivisi. L'idea sarebbe di defilarsi dal "binario istituzionale" omologato, sottilmente repressivo e invalidante (quello del "tu devi") che irreggimenta masse ingenti di individui verso il lavoro individualistico e impiegatizio, monotono, noioso, ripetititvo, frenetico, sfruttato, e verso il consumo passivo e compulsivo. Si potrebbero riabilitare le borgate, alcune delle quali in discrete condizioni seppur abbandonate (come quella di Villagrazia), ripopolandole di giovani sottrattisi, con una presa di coscienza, alla "predestinazione di massa" al lavoro sfruttato dal Capitale. L'obiezione che io avanzo sempre, e che mi potrei aspettare, è che c'è pur sempre una vita istituzionale da cui si viene, che non è per niente semplice abbandonare (per forza d'abitudine), ma l'idea sarebbe di procedere su due piani paralleli, dando a "Cesare quel che è di Cesare" e a questo possibile progetto di trascendenza della propria condizione il "tempo libero" programmato. Gli studenti del liceo, invece di rassegnarsi all'adattamento e alla prassi della distrazione, per vivere di contentini, potrebbero impegnarsi insieme in questo progetto collettivo di vita (o anche trovarne un proprio, autenticamente libero, sarebbe l'ideale!), lo stesso vale per gli studenti universitari, che però sono i più integrati alla logica sistemica del lavorismo individualistico. Il liceo potrebbe essere il livello istituzionale forse più predisposto, ma anche il più complicato. Questo progetto significherebbe anche trovare un senso comune alla propria vita, vivere insieme, invece che all'insegna del familismo, del corporativismo e dell'atomismo di oggi. Significa sapere cosa si mangia nell'epoca del cibo adulterato dalle multinazionali alimentari, sapere cosa si beve, cosa si indossa, cosa si fa nella vita e perchè lo si fa; significa fare di ogni cosa un "bene comune" e non una merce da comprare sul mercato col freddo denaro racimolato col proprio lavoro appartato. Significa creare un modo di produzione (chiamiamolo comunitarista se non neocomunista) che consiste nella democratizzazione diretta dei mezzi di produzione, nella fine delle ideologiche istituzioni borghesi, come la scuola dell'obbligo, l'università di massa, il lavorismo, il consumismo, la famiglia cristiana...; tutto in favore di un drastico ridimensionamento del lavoro, tradizionalmente concepito come "attività nobilitante" capace di rendere giusitizia della "dignità dell'uomo", a vantaggio di una sua continua riduzione sino al minimo, pensandolo più come una "necessità naturale" da raggirare costantemente e da limitare al soddisfacimento dei bisogni primari (cibo, acqua, tetto, vestiti...), per avere sempre più tempo libero per se stessi e gli altri. Tutto ciò significa anche espressione e soddisfacimento concretamente liberi e autonomi dei propri bisogni, riconfigurando il mercato in chiave solidale e comunitaria, rendendolo qualcosa di funzionale ai bisogni spontaneamente manifestantesi, e non l'intermezzo assoluto di smistamento di merci prodotte da chi detiene, in regime di proprietà privata, i mezzi di produzione, inducendo falsi bisogni al fine di piazzare innumerevoli e superflue merci per fare profitti.


Oppure ci si può contentare, perchè il "sistema" è questo: si devono fare "sacrifici", si deve studiare, si deve lavorare, si deve consumare, si deve si deve si deve... In fondo, ci si può adattare, è una possibilità, la più nota e sicura, anche la più facile, e coltivarsi uno spazio privato "libero", ma con il rischio realizzabilissimo di perdere se stessi, di diventare, via via che si va avanti e ci si "sistema", come "i nostri padri", che hanno accomodato e acconsentito a questo pre-destino comune di disincanto e di vile rassegnazione.


Si potrebbe partire dalla scuola, magari dal liceo. Come in tutte le grandi rivoluzioni, questa potrebbe configurarsi come una rivendicazione della propria libertà, tradita e conculcata dal permissivismo subdolo di oggi. Il senso etimologico di "rivoluzione", difatti, è quello di "ritorno ciclico al principio", dunque alla tradizione, al passato, ma in chiave nuova, perchè tra il principio e il ritorno c'è sempre quel "ciclico", il che equivale a dire che tra le "storie" e le "culture" di ieri c'è sempre la "Storia" e la "Cultura" borghese di oggi e del recente passato che richiede un superamento consapevole. Capire chi siamo oggi e qual è la radice della nostra condizione di alienati e sfruttati significa prendere coscienza delle contraddizioni insanabili della "Storia" e della "Cultura" di cui si è parlato, la quale è riuscita e riesce oggi a far sentire i suoi padri e i suoi figli infelici e repressi nella ricchezza e nell'opulenza che tanto aveva inalberato come benefici diretti ascrivibili alla propria affermazione. Capire dunque la borghesia che ha decretato l'avvento di una nuova "povertà", diversa e meno evidente rispetto a quella da cui fuggivano tutti coloro che non erano borghesi ed erano persuasi che seguendo quello stile di vita avrebbero trovato la richezza e la felicità. Oggi quel modello è piuttosto fallimentare, non tanto per la "crisi" di cui si parla e riparla, ma perchè ha storicamento gettato chiunque in una condizione di povertà, magari non materiale, ma spirituale, di miseria. Quello che voglio dire è che la condizione, secondo me comune, unidimensionalmente borghese, ha prodotto una nuova "povertà" che non è più materiale magari, ma che si manifesta in un'insoddisfazione e frustrazione generali (volendo usare un eufemismo). Il pregiudizio cruciale che blocca oggi questo mutamento radicale di vita è quello per cui esiste solo un tipo di povertà, quella materiale economica, ma oggi in società io vedo moltitudini straordinariamente numerose di "ricchi poveri", di persone benestanti (il che, persino sotto il profilo strettamente materiale, è altamente discutibile ormai) ma infelici, insoddisfatte, nevrotiche. L'idea su cui si è fondata storicamente l'Italia di oggi, radicata nei drammi del "boom economico", è quella dell' arcinoto "benessere", ma forse ora ci si sta accorgendo, da un po' di tempo a questa parte, e forse ci si accorgerà definitivamente, che questo "benessere" (univocamente materiale) non è tutto, perchè ci ha fatto perdere qualsivoglia prospettiva o dimensione di vita identitaria, relazionale-interpersonale, cooperativa-colletiva, sacrificando tutto sull'altare dell'egoismo individualistico e competitivo. Dunque, il principale ostacolo alla "rivoluzione" è questo benessere, unicamente materiale, in cui siamo appollaiati, rilassati e rassicurati noi giovani d'oggi, ancora allettati e distratti dalle comodità dateci dai nostri genitori, malgrado forse siamo coscienti della nostra travagliata infelicità.

Comunque sia, se non la si vuole chiamare "povertà spirituale", perchè tutto ciò che è "spirituale" è "mistico", e quindi "da rigettare a priori", si possono trovare altre parole, riconducibili in generale ad un vuoto generalizzato di identità che attanaglia noi tutti (io credo), ma, in fondo, cambia poco, perchè alla fine siamo sempre lì...


                                                                                                                                     Ugo Giarratano

Fonti:

Le borgate di Palermo. Di Renda, Ajroldi, De Simone, Tripodo, Sturiano, Cannone, Caracciolo, Vesco, Samonà.

Da Borgata Storica a Moderna Periferia: considerazioni a margine sullo sviluppo della città di Palermo. Di Dario Gueci e Filippo Schilleci. Università degli Studi di Palermo, Dipartimento Città e Territorio.

Le periferie palermitane: percorsi per rinnovare il passato e tutelare il futuro.
Di Francesca Triolo e Carla Quartarone. Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Architettura.

Periferia ed edilizia pubblica (1949-1970): alcuni interventi a Palermo.
Di Raffaella Riva Sanseverino. Dipartimento di Progetto e Costruzione Edilizia. Università degli Studi di Palermo.

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