martedì 27 gennaio 2015

Palermo e l'Italia dell'INA-Casa: il ceto medio, la Dc, il Capitale e gli obbrobri della speculazione edilizia.


La città italiana, dalle macerie della guerra a "casa" del ceto medio: storia critica di un certo modo di organizzare lo spazio cittadino.


Fonti:
L'urbanistica italiana dal dopoguerra a oggi. Di Marcello Fabbri, edito dalla De Donato (prima edizione: 1983).


Dati Istat sui censimenti generali.


Cosa viene comunemente in mente oggi quando si riflette un attimo sulla città di Palermo ? Traffico, inquinamento, rumore, caos, sporcizia e rifiuti. Volendoci fermare ai problemi più evidenti. E poi, riflettendo più a fondo, ci si potrebbe chiedere se sia effettivamente una città "vivibile" o "ecosostenibile", come si suole dire.

Ci si potrebbe chiedere in sostanza: ci piace il modo in cui è stato e viene usato e organizzato lo spazio a Palermo ? Perchè la città di Palermo oggi serba tutti questi difetti e tutte queste criticità ? Organizzare lo spazio cittadino non è una faccenda di poco conto, la nostra vita in società si svolge in uno spazio e in un tempo configurati secondo un certo criterio e occupati con certe attività, in teoria, coralmente finalizzate ad obiettivi collettivamente deliberati.

La nostra vita è qualitativamente diversa se è condotta in paese o in città. I suoi ritmi e il suo svolgimento giornaliero sono ben diversi. In questo articolo ci si propone di capire perchè Palermo si sia ridotta in questo stato, collegando il caso locale a quella che è stata, dal secondo dopoguerra, la logica nazionale di sviluppo e di organizzazione dello spazio cittadino, plasmato secondo un criterio che ne ha fatto il centro logistico nevralgico attorno a cui e in cui organizzare il progetto di modernizzazione dell'Italia. In particolare, si vuole rimarcare il nesso che sussiste tra un certo criterio di configurazione dello spazio cittadino e lo stile di vita di chi vi abita, nella fattispecie quello che si va generalizzando e affermando negli anni '50-'60 del "miracolo economico", il periodo storico fondamentale durante il quale l'Italia si allinea dalle altre società industriali avanzate e consumistiche.


Il movimento moderno e il razionalismo italiano: storia recente di un modo di fare le città.



Il paradigma architettonico-urbanistico novecentesco, la cui affermazione egemonica avviene durante il periodo interbellico, è passato alla storia come Movimento Moderno. In Italia il punto di raccordo dell'architettura urbanistica autoctona con gli influssi internazionali fu fino al 1936 Edoardo Persico, il quale aveva condotto le sue ricerche e riflessioni separatamente (per via del suo antifascismo) rispetto al milanese Gruppo 7 (sorto nel 1926), poi confluito nel MIAR (Movimento Italiano per l'Architettura Razionalista sorto nel 1928).

I problemi delle città italiane scaturiscono da certe impostazioni progettuali urbanistiche che fanno capo al Movimento Moderno, a livello internazionale, e al Razionalismo Italiano, a livello nazionale, in seno al quale si colloca la fortunata corrente del neorealismo architettonico.


Uno scorcio della Milano del dopoguerra

Come spiega Marcello Fabbri, dopo la seconda guerra mondiale le aree urbane erano ridotte niente più che ad un cumulo di macerie, con qualche edificio ancora in piedi, seppur pericolante. Si poneva ovunque il problema fondamentale della ricostruzione, che doveva essere pianificata mediante un preliminare piano regolatore, al fine di venire incontro alle pressanti richieste di abitazioni che provenivano da tutte le persone che per via della guerra non avevano più una casa o tornavano in città dopo aver vissuto da rifugiate in campagna. Secondo l'autore, il caso di Milano è esemplare in tal senso, perchè contiene tutti quegli elementi di fragilità e di criticità che affliggeranno per tutto il secondo novecento la vicenda urbanistica italiana, di cui fa parte Palermo.

Ma chiariamo che cosa sono il Movimento Moderno e il Razionalismo Italiano.

Il Movimento Moderno va affiorando all'indomani della Grande Guerra facendo valere i propri propositi disposti ad un ritorno alla razionalità ordinatrice e alla disadorna funzionalità, intesi come parametri di riferimento per la configurazione dello spazio cittadino. Questo movimento era eterogeneamente composto da una serie di figure rilevanti a capo dei rispettivi indirizzi: da Le Corbusier, teorico dell' "architettura funzionalista" a Frank Lloyd Whrite teorico dell' "architettura organica", passando a Walter Gropius, teorico del "Bauhaus".
In Italia i trascorsi del Razionalismo sono più complicati e singolari. Per tutto l'interludio bellico fu abbastanza rilevante l'esperienza del Gruppo 7, poi MIAR e alla fine RAMI sotto il fascismo. Questa mutevole compagine di architetti fu aspramente criticata da Persico che la tacciava di inconsistenza teorica e di aver aderito solo formalmente al Movimento Moderno. Il MIAR sin dalle origini era intenzionato a divenire architettura di stato, ma alla fine si scompose e smembrò quando un sotto-gruppo interno di architetti fascisti si costituì come RAMI.

Dopo la liberazione, e qui si torna al caso emblematico di Milano, i prosecutori della precedente cultura urbanistica razionalista sono chiamati in causa per la ricostruzione. A Milano ci si discosta notevolmente dal Movimento Moderno e si fa strada il MSA, il Movimento di studi per l'architettura, che formula il piano A.R.. Questo modello di piano regolatore si dibatterà con gli altri concorrenti già nel 1945, per poi arrivare al 1948, una volta passato il concorso e vagliato dagli organi collegiali giudicanti. Verrà approvato solo nel 1953.

Il Piano A.R. prevedeva essenzialmente, e questa fu la matrice di riferimento comune alle molteplici e svariate esperienze urbanistiche disseminate per il territorio italiano, un "centro direzionale" dove si potessero svolgere gli "affari", due "assi attrezzati" (2 autostrade urbane) che collegassero la città con lo spazio regionale e la attraversassero per consentire lo spostamento rapido, infine delle "forme di gestione" che mettessero il Comune nella condizione di adempiere al proprio ruolo sovrano nell'assegnazione del suolo in "diritto di superficie".

Nello specifico, l'esperienza urbanistica della città di Milano palesò già alcuni motivi ricorrenti, come puntualizza A. Mioni nel suo "L'urbanistica milanese nella ricostruzione", che si sarebbero ripresentati altrove:

- il lavoro di pianificazione urbanistica era risolto in una semplice "progettazione architettonica a grande scala" pensata per "disegni"; erano del tutto estranei fattori di ordine economico, sociale, politico, che erano stati fatti valere senza successo nel '46 in consiglio comunale dall'economista Roberto Tremelloni. Dunque "pianificazione" e "tecnica" coincidono.

- il piano regolatore milanese del '48 girava attorno ad un'ideale di città ben preciso, dalle tinte razionaliste retrograde, in particolare ispirato ai principi dell'architettura funzionalista: una città per i ceti medi, classista, concentrata sulle attività del settore terziario ("commerciali, direzionali, amministrative, culturali"), "egemone nel suo territorio" (per la prima volta si parla di "città-regione", ancora oggi in Italia è la città che inquadra il territorio, provinciale e regionale, centralisticamente e burocraticamente), articolata in zone intese come unità funzionali gerarchicamente organizzate, da cui sarebbero stati allontanati sia gli stabilimenti che le classi lavoratrici (Mioni precisa anche che Milano veniva pensata in funzione di una generalizzazione della motorizzazione privata, ignorando altre possibilità come la proposta del liberale Cesare Chiodi che mirava ad un'incentivazione del trasporto pubblico). Dunque questo era il modello: una città-regione, sede delle industrie dei servizi e abitata dai "ceti medi" (quelli "piccolo-borghesi" che dal dopoguerra la Dc aveva in progetto di costituire e tutelare nelle nuove città, per contrastare la lotta di classe e il Pci).

- in più, il gruppo avanzato di esperti architetti che aveva elaborato il piano sarebbe stato di lì a poco estromesso, lasciando il compito di approntare tutte le misure urbanistiche agli uffici comunali, con dannose conseguenze. Gli architetti urbanisti si sarebbero focalizzati sull'edilizia privata che col boom economico avrebbe fatto la loro fortuna, traendo giovamento dall'iniziale e propulsivo impulso impresso dalle sovvenzioni e dal patrocinio statali (il "piano fanfani" del '49 in questo senso fu decisivo).

- un altro problema riguarda, come rileva Fabbri, il rapporto tra cultura architettonico-urbanistica e potere capitalistico. L'architettura funzionalista aveva sin dai suoi inizi assecondato le esigenze, ascrivibili al potere capitalistico, riconducibili ad un'organizzazione razionale e funzionale, "meccanica", del territorio urbano. A Roma, sotto Bruno Zevi, si era costituito l'APAO, il movimento per l'architettura organica che si pensava nello Statuto come un' "evoluzione" dell'architettura funzionalista, più attenta ai rapporti con il territorio non urbano e alla riorganizzazione delle strutture produttive. Il presupposto indiscutibile di questo paradigma era però, anche qui, l'accettazione del potere capitalistico come forza dinamica capace di trainare tutta la società verso il progresso e la prosperità. Un altro paradigma interessante era quello di Adriano Olivetti che, però, seppur in modo diverso, ricalcando addirittura modelli oweniani, accettava sempre il potere capitalistico.



Bruno Zevi
Bruno Zevi è il corifeo della corrente post-bellica dell'architettura organica. Si concentrò molto sull'assunto di base che nella sua Storia dell'Architettura consisteva nel "cogliere e analizzare l'essenziale passaggio dell'architettura moderna dalla fase funzionalista in senso preminentemente economico e meccanicistico [paradigma interbellico delle prime avanguardie del Movimento Moderno e del Razionalismo Italiano] a una maturazione umanizzatrice [nuovo paradigma organicista]" (cit. dal libro di Fabbri)

L'architettura organica, dunque, si contrappone a quella funzionalista, perchè assume come "contenuto" gli "uomini che vivono gli spazi" e come metodologia per la configurazione degli spazi la "poetica wrightiana" (teorico a livello internazionale dell' "architettura organica"). Questo tipo di architettura si confaceva al nuovo potere capitalistico del tempo, dunque ad una strategia politico-economica di sviluppo di matrice keynesiana che sarebbe stata l'anticamera del "miracolo economico" e della "civiltà dei consumi", come aggiunge Fabbri.

Riepilogando, dopo la seconda guerra mondiale si pone ovunque il problema cruciale della ricostruzione, in Italia ci sono ancora gli strascichi dell'architettura funzionalista interbellica, congeniale ad un certo tipo storico di potere capitalistico. Milano è il caso esemplare in cui si condensano tutte queste esperienze; il piano A.R., formulato dall'MSA, passa per i vagli del '48 e del '53, dando luogo ad un modello di città ancora di matrice razionalista-funzionalista; l'APAO sancisce l'avvento dell'architettura organica che sarà congeniale ad un tipo più evoluto di potere capitalistico (keynesiano-democristiano), quello che di lì a poco, negli anni '50-'60, avrebbe spianato la strada al "miracolo economico" e al "consumismo". Il modello di città che esce nel 1953 è quello della città-regione egemone sul territorio provinciale e regionale, sede del capitalismo keynesiano del settore terziario (quello dei servizi e dello "Stato Sociale"), "casa dei ceti medi impiegatizi", funzionale razionale e gerarchicamente organizzata e predisposta ad una futura generalizzazione della motorizzazione privata.


L'Italia e la modernizzazione in ritardo: la città della ricostruzione, modello Ina-Casa, e il "ceto medio urbano" tra consumismo e industrialismo.


Ora si è illustrata per cenni la vicenda post-bellica della cultura urbanistico-architettonica italiana, tutta interna alle logiche differenziate del Razionalismo Italiano che passa da un paradigma funzionalista, organico ad un capitalismo ancora di vecchio stampo (interbellico), ad un paradigma organicista (Bruno Zevi e l'APAO) che si prepara a diventare la forma ideologica urbanistica organica al "Neocapitalismo" di matrice keynesiano-democristiana, quello che instraderà l'Italia verso il consumismo del "miracolo economico". Il piano A.R. di Milano rimane il piano regolatore-tipo al quale comparare le altre svariate esperienze di ricostruzione in giro per l'Italia.
Adesso è utile soffermarsi sul "processo di modernizzazione" che vive l'Italia degli anni '50-'60 che, come aveva osservato con acume un artista come Pasolini, avrebbe condotto l'Italia dalla sua condizione di paese agricolo-manifatturiero, pre-industriale, pre-moderno e pre-capitalistico, quindi essenzialmente contadino e operaio, a quella di un paese retto dal "ceto medio" della piccola borghesia impiegatizia e commerciale, quella che lavora nel settore terziario dei servizi (si badi, tale ceto medio è il capostipite di quello attuale: è da li che veniamo, con tutto ciò che ne comporta). L'Italia del "Welfare State" e dei consumi sfrenati, del dirigismo economico e degli interventi pubblici di ispirazione keynesiana (di iniziativa democristiana), del piano Marshall e, soprattutto, visto il contesto del discorso, della ricostruzione edilizia inaugurata dal "Piano Fanfani" del 1949, in vigore sino al 1963 (anche questa di ispirazione keynesiana).


il piano INA-Casa, il ceto medio, il capitalismo italiano dell'industria e dei servizi...


Il piano INA-Casa, come fu denominato altrimenti il "Piano Fanfani", è lo snodo centrale attraverso cui si deve passare nella ricerca, se si vogliono comprendere i fattori che hanno condotto le città italiane ad essere quelle che sono oggi, con il rispettivo e peculiare "ceto medio" che ne diviene il rappresentante e l'abitatore esclusivo, sopravanzando le "classi sociali" di vecchio stampo, quella operaia e quella contadina che avevano un rapporto più diretto con la campagna. A partire dal 1949, sino al 1963, quando il piano INA-Casa fu abrogato, l'Italia fu ricostruita da zero e gli spazi cittadini di oggi sono il prodotto di quelle scelte politiche e di certi paradigmi architettonico-urbanistici predominanti, quelli fuoriuscenti dall'universo ideologico del regime fascista (è curioso come, nel clima generale di impunità che riguardò i fascisti dopo la guerra, un certo Arnaldo Foschini, sostenitore attivo del regime fascista, divenne il direttore del piano INA-Casa relativamente agli aspetti architettonici e urbanistici. Era anche uno dei più rilevanti esponenti della "scuola romana", nonchè preside della facoltà di architettura all'università di Roma, ben conosciuto negli ambienti dell'Istituto Nazionale delle Assicurazioni, INA, preposto alla gestione finanziaria del piano).

L'idea che tenterò di articolare è che ci sia un nesso tra la ricostruzione delle città (modello INA-Casa), la relativa costituzione di un "ceto medio", essenzialmente piccolo-borghese e cattolico, e il modo di produzione capitalistico di cui germinano le radici nel dopoguerra e che matura esplosivamente negli anni '50-'60 con la piena "modernizzazione" dell'Italia, che diviene una società industriale avanzata con produzione e consumi di massa. Il capitalismo di cui parlo è di matrice keynesiano-americana (fordista per essere più precisi), trova nella democrazia cristiana il potere politico di riferimento e nello "Stato sociale" la veste ideologica mistificatrice che il capitalismo concorrenziale-liberista di vecchio stampo aveva trovato nello "Stato liberale". Questa idea spiega a mio avviso la natura profonda della "crisi italiana" di oggi, nella misura in cui i modelli di vita, gli usi e i costumi, l'ideologia e i fini esistenziali alienanti che vigono in società oggi sono il lascito di quel passato, laddove l'Italia dopo la guerra era nella miseria e pronta a recepire le direttive del progetto politico filoamericano della Dc: dal piano fanfani del '49 sino agli anni '50 e '60, dove avviene quella che Pasolini al tempo denunciava, con ingiuriata disperazione, come "la mutazione antropologica degli italiani".

Marcello Fabbri, nella sua opera, rimarca il nesso tra una "classe mediatrice" nascente e le nuove città modello INA-casa che vanno proliferando sin dagli inizi degli anni '50:

"Al principio degli anni Cinquanta tutte le inquietudini della società italiana sono condizionate dall'involuzione politica conservatrice, dalla repressione padronale e poliziesca strettamente integrate, dalla scissione sindacale. Nello stesso tempo si fa strada una proposta generale di integrazione sociale: una classe mediatrice in espansione numerica e in fase di crescita politica aspira ad un'immagine di tranquillità per la vita e l'ambiente urbani; cioè per il luogo dove esercita la propria funzione, e che non deve avere legami direttamente visibili con la campagna - con la condizione da cui si vuole essere promossi economicamente e socialmente - nè con l'industria. "In una parola, essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza"; questa immagine è la città italiana come incomincia a delinearsi, nelle sue trasformazioni dal 1950 in poi."

(pp.79-80, par. "Il blocco urbano e i quartieri", cap.II: "Dalla riforma agraria all'ideologia di quartiere: nascita del blocco urbano")


il ceto medio urbano, prodotto evoluto della piccola borghesia cittadina degli anni '40-'50, fatta di contadini inurbati, di operai che si vanno imborghesendo, di disoccupati, di funzionari pubblici e privati...


Ci sono dei dati impressionanti che riflettono il processo di ridefinizione della fisionomia sociale italiana.
Fonte: http://cinquantamila.corriere.it/storyTellerCluster.php?clusterId=cen (Istat)


censimento del 1951
 
il 42,2 % della popolazione attiva coltiva la terra.
il 32,1 % lavora nell'industria.
il 25,7 % lavora nei servizi (settore terziario).
1961
 
il 29 % coltiva la terra (si consideri che l'agricoltura progressivamente va industrializzandosi seguendo i modelli internazionali, perciò va perdendo il suo carattere di pratica empirica, contadina, familiare e cooperativo-comunitaria).
il 40,4 % nell'industria.
il 30,6 % nei servizi.
1971
 
il 17,2 % in agricoltura.
il 44,3 % nell'industria.
il 38,4 % nei servizi.
1981
 
l'11 % in agricoltura.
il 39,5 % nell'industria. (si consideri che l'industria si va prestando alle logiche globali di automatizzazione del processo produttivo, richiedendo nuovi lavoratori: i "colletti bianchi")
il 49,4 % nei servizi.
1991
 
il 7,5 % in agricoltura.
il 35,6 % nell'industria.
il 56,7 % nei servizi.
2001
 
il 5,5 % nell'agricoltura.
il 33,5 % nell'industria.
il 61 % nei servizi.

Due sono le date da mettere in rilievo: il 1961 e il 1981. Fino al 1951 l'Italia è ancora, come secondo tradizione, un paese prettamente agricolo-manifatturiero, paleocapitalistico, ovvero "pre-moderno" nella misura in cui per "moderno" si intende, per l'appunto, quel paese che conferisce un primato centrale all'industria, ovvero alla produzione seriale di massa con i relativi (generalizzati) consumi privati. Il 1950, per essere chiari, è convenzionalmente l'anno della svolta, a partire dal quale in Italia il modo di produzione industriale esplode, affermandosi come egemone e registrando uno sviluppo rapidissimo e vertiginoso. Nel 1961 si prende atto, col censimento dell'ISTAT, del sopravanzamento dell'industria ai danni dell'agricoltura; questo significa che in Italia si riconfigura la classe operaia, che subisce un aumento dei propri effettivi, e nel contempo accresce di importanza il cosiddetto ceto medio impiegatizio che lavora nei servizi pubblici o privati (i nostri nonni sono partecipi di questo processo graduale di spostamento della forza-lavoro dai suoi spazi produttivi tradizionali - la terra e la fabbrica - a quelli "moderni" delle industrie dei servizi, siano esse di estrazione privata o pubblica; i nostri genitori potranno definirsi come i primi esponenti di un ceto medio esclusivamente urbano, alienato a 360°: dalla produzione, dalla campagna, dalla politica ecc.). I contadini vanno inurbandosi e imborghesendosi, abbandonando le terre; gli operai partecipano allo sviluppo industriale-fordista del paese, il luogo naturale che accoglie questi processi è la nuova città modello INA-Casa, fuoriuscente dal piano Fanfani del '49. Dunque, negli anni '50 avviene l'affermazione rapidissima del modo di produzione industriale, con consumi privati e produzione di massa; la città modello Ina-Casa ('49) ospita la piccola borghesia cattolicissima e democristiana, fatta di contadini inurbati, di operai imborghesiti che iniziano a consumare lambrette, vespe e 600 (con le prime rateizzazioni); il ramo dei servizi si appresta già ad essere la nuova frontiera del capitalismo italiano tardonovecentesco, come accadrà compiutamente nel 1981, quando l'industria incomincia a subire delle flessioni da quel momento in poi inarrestabili, insieme con l'ormai decadente e bistrattata agricoltura che arriverà nel 2001 a riscontrare il 5,5 % degli occupati (agricoltura tra l'altro ormai pervasa dai modelli di produzione industriale e tecnico-scientifica della "Green Revolution" americana, irradiatasi per tutto il mondo).


Questa "modernizzazione" dell'Italia, che significa "miracolo economico" e "società dei consumi", sotto l'avallo politico-istituzionale della Dc, ha omologato l'Italia, acculturando e sradicando progressivamente dal sistema produttivo le due classi sociali dei contadini e degli operai, stemperatesi nell'ibrido del "ceto medio urbano", fatto da consumatori-feticisti di merci, slegati progressivamente dal tessuto produttivo agricolo e da quello industriale, indottrinati all'accomodante adattamento ad un'etica lavorista funzionale ai fini di una produzione ipertrofica, gestita da pochi ed egoistici interessi industriali in vista del profitto illimitato. Il piano INA-casa non è stato soltanto il più consistente progetto keynesiano di riassorbimento della disoccupazione, ma anche un modo per risollevare le sorti del capitalismo italiano, o comunque per propiziarne lo sviluppo. Senza una rete di città non può esserci un modo di produzione capitalistico, perchè la città è essenziale per l'organizzazione del lavoro e per la sistemazione della popolazione che dovrà costituire la sacca di consumatori. Le automobili, i motorini, gli elettrodomestici del "miracolo economico" sono impensabili senza un contesto cittadino, così come lo è una produzione industriale seriale che deve avere come presupposto imprescindibile i consumi di massa, ovvero popolazioni copiose e concentrate in un unico contesto urbano. Insomma, la città è fondamentale.


Il piano INA-Casa e le sue forme urbanistiche ideologiche, conformi alle finalità del capitalismo industriale e terziario che va configurandosi attorno alla città...


Fabbri mette in risalto la natura per nulla neutrale dei modelli urbanistici dell'INA-casa, spiegando come la logica del "blocco urbano", dei "quartieri" e delle "unità di vicinato" risponda a certe finalità intrinseche alle logiche di ricostituzione del modo di produzione capitalistico (industriale e terziario), dopo una guerra devastante che aveva sconquassato gli equilibri dell'anteguerra.


"Agli urbanisti si chiedeva di non toccare la città e di collaborare all'integrazione e al filtraggio sociale nel chiuso del recinto dei quartieri periferici, da creare col piano Fanfani: nato come "Piano incremento dell'occupazione operaia" in risposta al "Piano del lavoro" proposto dalla CGIL. Obiettivi del Piano Fanfani (che sarà gestito dall'INA-Casa): lavoro, alloggi, allargamento degli sbocchi di mercato per tutti i beni legati direttamente o indirettamente all'edilizia (cemento, ferro, mattoni, calce, tubi, ma anche arredamento, e in futuro frigoriferi, vespe e lambrette e poi automobili; ce n'è per tutti, imprenditori grandi e piccoli), immissione nel mondo urbano, con juicio." (p.84)

Fabbri sul quartiere...

"L'ideologia del quartiere - tradotta in italiano - è del tutto affine all'ideologia che ispira gli insediamenti della Riforma agraria: anche qui si gioca la famiglia contro la società, ma il condizionamento è mediato dal quartiere, dalla "sottocomunità", dalla "comunicazione". La casa unifamiliare (fondamento della città-giardino) sarebbe uno spreco, un peccato contro la proprietà (terriera) e la rendita fondiaria; ma anche le grandi macchine per abitare suggerirebbero un'eccessiva socializzazione, e un richiamo al non gradito mondo industriale. L'immagine deve essere urbana, ma moderatamente: con il ricordo del borgo. Il quartiere rappresenta il filtro più adatto per isolare anche visivamente, per connotare i consumi e divulgare una forma ideologica che corrisponda ad un modello di vita: con un'integrazione nelle richieste del meccanismo produttivo."
Sull'unità di vicinato...


"Un ulteriore restringimento e frazionamento dei rapporti sociali deriva dalle "unità di vicinato" che costituiscono le cellule di aggregazione urbanistica, variamente ripetute, di quasi tutti i quartieri degli anni Cinquanta. Anche qui l'importazione delle teorie della "Neighboroud Unit" aveva sempre lo stesso scopo; tradotte in italiano servivano a surrogare la società con una serie di microrelazioni interpersonali e interfamiliari che dovevano impedire di vedere, al di là del recinto, il mondo, le classi, i rapporti di produzione con un lontano ricordo dell'utopia da cui erano nate..."

Blocco urbano, quartieri e unità di vicinato: questo lo schema urbanistico ideologico che, come sostiene Fabbri, polverizzava e frazionava la società sede della nuova "classe mediatrice", mossa da ideali quietistici di vita, al riparo dalla recrudescente "lotta di classe" comunista che minacciava rovesciamenti dell'ordine vigente. I quartieri servono per dare alloggi ai reduci dalla guerra, agli affamati, agli sfollati e agli spossati dall'instabilità e dalla precarietà di una vita fino a quel momento fatta solo di miseria e di violenza, sono anche quelle strutture abitative che accolgono i nuclei familiari pronti a rifarsi una vita grazie ai consumi privati che si generalizzeranno vistosamente negli anni del "boom".


"Intanto, su questo generale processo-progetto di integrazione sociale, si preparava il "miracolo" italiano, fondato sulla casa come epicentro del consumo individuale e sull'allargamento del mercato dei beni direttamente o indirettamente connessi alla vita domestico-familiare, con la quantità di forza-lavoro a basso prezzo incorporata nei beni stessi." (pp.89-90)



Il quadro si arricchisce: l'Italia, prostrata dalla guerra, è disseminata di città rase al suolo, con cumuli di macerie; è percorsa da moltitudini di sfollati, di fuggiaschi, di affamati senza una casa, che hanno perduto tutto e che si preparano a ricostruirsi una vita. Nel '49 Fanfani, in veste di ministro del lavoro del V governo De Gasperi, nonchè primo governo repubblicano, si fa promotore di un disegno di legge presentato nel '48 al consiglio dei ministri e approvato in tempi rapidissimi dal parlamento. E' la legge che detta le direttive per l'attuazione della megaricostruzione nazionale delle città (350'000 alloggi di edilizia residenziale pubblica), un progetto di ispirazione keynesiana (finanziato in buona parte coi fondi americani del piano Marshall) che mira anche a riassorbire la disoccupazione esorbitante, rilanciando l'occupazione operaia e producendo ricchezza attraverso il promettente ramo dell'edilizia (interessante è anche sapere che il 5 febbraio del '49 l'amministratore americano dell'ERP [alias Piano Marshall], Hoffmann, nel suo rapporto criticò aspramente il piano fanfani, sostenendo che si sarebbero dovuti impiegare i fondi del piano per aumentare il potere d'acquisto della classe media relativamente ai prodotti del mercato americano). breve video di rai storia a proposito di questo


Dunque, fu inoltrata un' ingente sovvenzione statale per rivitalizzare l'economia italiana, dando lavoro agli operai e alle industrie edili locali, per fare in modo che si producessero redditi e profitti. Il primo governo repubblicano (democristiano) vuole dar voce al nuovo ibrido sociale della piccola borghesia cattolica (di estrazione fascista) che si va stabilendo in massa in città e che dopo la guerra vuole tranquillità, pane, casa e un reddito per mantenersi. Nelle città si assestano il blocco urbano, i quartieri e le unità di vicinato, previsti dall'Ina-Casa, non sempre con successo e senza problemi; su questa base attecchiscono i presupposti per il "boom" degli anni '50, ovvero per l'affermazione egemonica del modo di produzione industriale che in Italia era da sempre sottosviluppato e surclassato dall'agricoltura manifatturiera, dal commercio e dall'artigianato. Il piano Ina-Casa, previsto sino al '63, dapprima impresse nuova lena al mercato, dando lavoro e fondi per industrie e operai disoccupati, auspicando un keynesiano rialzo dei consumi, ovvero della domanda. Successivamente, però, come testimoniano lo scalpore, le critiche e le polemiche del tempo, il piano Ina-Casa lasciò spazio all'egoismo e alla spregiudicatezza senza scrupoli di interessi industriali che corruppero i referenti politici di turno dando luogo alla nota "speculazione edilizia", che a Palermo è passata sotto il nome di "sacco di Palermo". Le città si espandono a dismisura e scriteriatamente, si costruisce senza controlli e senza norme di sicurezza, si inquina, si risparmia sulle opere di urbanizzazione dei terreni agricoli presi in possesso, per cui vengono a mancare i servizi di base. Ma non importa, perchè l'industria cresce, i consumi dal '50 esplodono, per effetto delle politiche democristiane keynesiane (Ina-Casa) e l'Italia nel '60 diviene un paese compiutamente industrializzato, esportando e inserendosi a pieno titolo nel mercato internazionale. Si scompongono le classi sociali, mutano le idealità politiche: gli operai impiegati nelle industrie iniziano a consumare, a saggiare la prosperità a loro tanto mancata durante la guerra, abbandonano qualsivoglia prospettiva rivoluzionaria; i contadini inurbati che hanno lasciato la terra si sentono allettati dalle possibilità di sicurezza e di ricchezza della città. La piccola borghesia si rinfoltisce, in un processo generale di imborghesimento e di dissolvimento delle vecchie ideologie, il quale si consuma per tutti gli anni '60-'70-'80, fino al "ceto medio" apatico e indifferente di oggi. Questa piccola borghesia è conservatrice, clerico-fascista e democristiana, amante del quieto vivere, della mediocrità e devota al lavoro, accomoda e si adatta al modo di produzione capitalistico vigente. A partire dagli anni '50-'60 si comincia a parlare di "benessere" da alcune parti e di "consumismo" da altre: chi avrà ragione ?

In sintesi, l'Italia di oggi affonda le sue radici nel secondo dopoguerra, a partire dal quale prende le mosse quel complesso di processi, che furono innestati da poteri politici nazionali (Democrazia Cristiana) e non (USA: piano Marshall), al fine di "modernizzare" il paese, cioè di omologarlo al modello di società e di cultura americano, divenuto egemone a livello mondiale dopo la preponderante supremazia del paese che lo incarnava nella determinazione delle sorti del conflitto. Il mercato capitalistico mondiale, quello patrocinato dall'America contro il blocco sovietico, si allarga attraverso il piano Marshall in tutti quei paesi europei che lo accettano (volenti o nolenti) e impone all'Italia, nello specifico, di uniformarsi al modo di produzione industriale, proiettandola esclusivamente verso lo scambio e l'esportazione. In Italia i passaggi d'obbligo, perchè il modello suddetto potesse attecchire, furono l'urbanizzazione massiccia e l'inurbamento di massa, la promozione di una piccola borghesia esclusivamente urbana con i contrassegni suddetti (quella dei nostri nonni "paesani" trasferitisi in città dopo la guerra), nella quale rifluirono le scompaginate classi sociali contadina e operaia; subentrò anche l'attuazione di politiche economiche keynesiane (come l'INA-Casa) volte a creare lavoro e redditi per stimolare un processo di generalizzazione dei consumi privati e di affermazione dell'industria (il consumismo e la produzione seriale di merci).


La speculazione edilizia e le leggi di contrasto...


In conclusione, occorre ricostruire il fenomeno della speculazione edilizia, piaga sociale cruciale che tutt'oggi si fa sentire ogni volta che si deve constatare ora il dissesto idrogeologico dell'Italia, in seguito a fattori naturali accidentali, ora la caoticità e l'invivibilità delle città o l'inquinamento delle campagne e l'abbandono dei paesini, ormai fantasmi di un passato remoto.

La speculazione edilizia è un'operazione truffaldina che consiste nel trarre profitto dalla vendita di immobili (terreni o edifici) sfruttando le variazioni dei prezzi del mercato. Si acquista un immobile ad un certo prezzo e lo si rivende una volta che il suo valore è salito in seguito ad una serie di lavori (di urbanizzazione nella fattispecie) che vi sono stati svolti. Possono subentrare anche altri fattori nell'incrementazione del valore, come congiunture economiche o crisi ecc. In genere, negli anni '50-'60, quando scoppiò il caso, il sistema funzionava in questo modo: bisogna considerare che fino al 1967, con l'approvazione della "legge ponte", la gestione dello spazio urbano non era seriamente regolamentata, anzi era in balia degli interessi egoistici dei costruttori edili che acquistavano a basso prezzo un terreno agricolo, lo urbanizzavano (cioè lo dotavano dell'impalcatura basilare di apparati elettrici, fognari, viari ecc., ma ciò non avveniva mai completamente e sempre con difetti e risparmi sui materiali d'impiego) e poi lo vendevano speculando sul prezzo. In questo modo, lasciato tale compito agli speculatori che non erano soggetti ad alcuna norma (ambientale, di sicurezza ecc.), le città si espandevano e articolavano disordinatamente e con disagi e deficienze interne che si ripercuotevano sulle vite dei cittadini. L'ambiente naturale veniva scempiato senza limitazioni e i bisogni delle persone, dei cittadini, erano ignorati a vantaggio dei ristretti interessi industriali dei costruttori edili.

A livello nazionale l'iter legislativo in materia di urbanistica, sempre in ritardo rispetto alle dinamiche speculative del mercato edilizio, passa per le seguenti leggi:

- disegno di legge sul regime dei suoli del '62.

- legge ponte del '67 (apporta emendamenti e integrazioni alla legge del '42).

-legge bucalossi del '77.

- legge galasso dell' '85.

- testo unico dell'edilizia del 2001 (modificato e integrato nel 2014).

- si aggiungono anche altre integrazioni secondarie apportate successivamente all'approvazione delle leggi urbanistiche predette: abbiamo un decreto interministeriale del '68 che stabilisce i criteri da rispettare relativamente alla definizione di spazi verdi pubblici, di parcheggi e di scuole. Sempre nello stesso anno sono promulgate anche integrazioni e modifiche alla legge del '42.

In Italia la prima vera e propria legge urbanistica è quella del '42, emanata durante la guerra dal regime fascista. Delle leggi successive selezionerò solo quelle parti in cui si predispongono delle misure volte a normare l'attività imprenditoriale edile, quella che nel secondo novecento, per via della mancata regolamentazione, ha provocato il boom speculativo concorrendo a scempiare lo spazio cittadino, riducendolo a quello che si presenta dinanzi a noi oggi.

Intanto bisogna premettere che l'attività costruttiva edilizia sarà limitata da prescrizioni alquanto irrisorie sino al '67, legate per lo più al tema della licenza edilizia.

La legge fascista del '42 fu la prima a prescrivere l'obbligo della licenza edilizia che doveva essere presentata al podestà. Tale licenza era concessa gratuitamente ed era necessaria solo relativamente al territorio urbanizzato; ciò vuol dire che al di fuori della città l'anarchia, nell'ambito dell'edilizia s'intende, regnava e ha regnato sino al '67. Si badi a questo. Il piano INA-Casa è del '49 ed è il piano originario di investimenti edilizi volto a imprimere impulso al mercato, al lavoro e ai consumi privati, gli anni '50 e '60 sono quelli del boom speculativo, durante i quali il mercato edilizio dimostra di aver beneficiato dell'impulso iniziale, l'esito devastante è stato che le nostre città, tra cui Palermo, sono state plasmate non dalle persone che le abitavano, dunque secondo gli interessi della collettività, bensì dagli interessi privati egoistici degli imprenditori edili, collusi con la politica locale...

Nel '62 c'era stato un vano tentativo di presentare una prima legge che cozzasse contro il processo sfrenato di speculazione edilizia. Il disegno di legge sul "regime dei suoli" avrebbe previsto, qualora fosse stato approvato (fu proposto dal democristiano Sullo, ministro dei Lavori Pubblici), la supervisione sovrana del Comune nel disciplinamento dell'attività edilizia, consistente nella concessione, a sua esclusiva discrezione, del "diritto di superfice", mediante asta pubblica e previa realizzazione delle opere basilari di urbanizzazione. Il promotore di questo disegno di legge, Fiorentino Sullo, aveva avuto già sino a quel momento una storia interessante, da dissidente di minoranza della Dc. Si era dimesso nel '60 dal dicastero che gli era stato affidato in seno al governo Tambroni, perchè contrario al coinvolgimento dei missini; il governo Tambroni era infatti quello che aveva ottenuto la fiducia grazie ai voti decisivi dell' MSI di Almirante (Movimento Sociale Italiano: per chi non lo sapesse, era il partito neofascista che raccoglieva tutti i nostalgici e gli eccentrici riformatori del fascismo). Per il suo disegno di legge sul regime dei suoi, che imponeva dei freni e dei limiti pesanti all'anarchia del mercato edilizio, nel '62 Sullo sarà denigrato, diffamato ed emarginato dal suo stesso partito, evidentemente non molto disposto ad ostacolare il Capitale che a quel tempo già metteva in mostra le sue scellerate opere di deturpamento urbanistico e ambientale.

Il '67 è l'anno della legge ponte che estende i controlli oltre il territorio urbanizzato, mantenendo però la licenza gratuita. Estendendo i controlli, il terriorio limitrofo alla città viene regolamentato, preservandolo dall'arbitrio del mercato edilizio. In più si affida al sindaco il compito di visionare la documentazione presentata dal costruttore richiedente e sempre al primo spetta di deliberare se dargli o meno la licenza. La concessione di quest'ultima, inoltre, viene subordinata alla realizzazione delle basilari opere di urbanizzazione del terreno.

Nel '77 la legge bucalossi istituisce la "concessione edilizia", soppiantando la "licenza edilizia". In accordo con questa disposizione, chiunque voglia costruire deve appellarsi al Comune, facendo una richiesta atta a ottenere l'autorizzazione a costruire che non è più gratuita. In termini giuridici il costruttore perde lo "ius edificandi", ovvero il diritto di costruire sul proprio terreno in virtù del semplice possesso (questa opzione era la medesima contenuta nel disegno di legge Sullo); diversamente, con questa legge, tale diritto gli deve essere concesso dal Comune, in particolare dal sindaco (come già era stato deciso dalla legge ponte che lo aveva responsabilizzato in questo ambito). Nel '97 la legge Bassanini bis delegherà tale compito alla pubblica amministrazione, togliendolo al sindaco. Dunque progressivamente sono predisposti controlli sempre più stretti.

Nell' '85 viene varata la legge Galasso che prescive l'obbligo di stendere dei "piani paesaggistici", miranti a tutelare l'ambiente naturale circostante.

Nel 2001, col "testo unico dell'edilizia" è abrogata la "concessione edilizia", al posto della quale si istituisce il "permesso di costruire", integrato con il "nulla osta". La richiesta del permesso deve essere presentata allo "sportello unico per l'edilizia" (S.U.E.) e il "nulla osta" deve essere concesso da quegli enti che sono preposti alla tutela di beni (architettonici, ambientali ecc.) che possono trovarsi sul terreno (o in prossimità dello stesso) sul quale il richiedente vuole costruire. Nel 2014 questo testo è stato modificato e integrato ulteriormente.

Questa è una stringata rassegna della storia relativa alla legislazione di contrasto alla speculazione edilizia. E' la storia dell'Italia delle città secondo-novecentesche: tutto inizia col piano INA-Casa del '49 e prosegue con gli anni del "miracolo economico" e del boom speculativo, sino al '67, quando la politica corre ai ripari, ma ex post, a cose già fatte e a danni già arrecati e giustappostisi l'uno sull'altro. Le nostre città sono l'esito dell'arbitrio dello sfrenato mercato edilizio che ha lucrato e speculato liberamente e del comportamento dei cittadini che hanno vissuto passivamente questo fenomeno, senza reagire o protestare, vedendo piuttosto le proprie città sfigurarsi (quasi per inesorabile inerzia) nel giro di pochi decenni, se non di anni...

Il discorso conclusivo sulla storia urbanistica di Palermo verrà pubblicato prossimamente e separatamente, per via della complessità estrema dell'argomento trattato. Questa parte finale sarà importante, perchè ricollegherò la logica mondiale (filoamericana) di ricostruzione delle città (nella fattispecie quelle italiane), finalizzata alla riconfigurazione decisiva e ultimativa del Capitale industriale in Italia, al caso specifico di Palermo.




                     Ugo Giarratano

venerdì 23 gennaio 2015

Lotta alle disuguaglianze

Obama sfida i ricchi in nome della giustizia sociale

"Non possiamo accettare un'economia che dia vantaggi enormi solo a pochi"

Rieccolo all'attacco, l'anatra zoppa continua l'offensiva ai Repubblicani con il semplice pilastro ormai dimenticato della socialdemocrazia: la redistribuzione della ricchezza. Il Presidente Obama è riuscito nei suoi due mandati Presidenziali a far uscire gli Stati Uniti dalla crisi, ha sfidato le ricette dell'austerità (come non ha fatto l'Europa) attraverso un piano di investimenti pubblici di keynesiana memoria. Oggi gli Stati Uniti continuano a crescere , otto milioni di posti di lavoro creati negli ultimi 5 anni, la disoccupazione più bassa da 6, ma qualcosa ancora non funziona. <<Non possiamo accettare un'economia che dia vantaggi enormi solo a pochi, ma bisogna impegnarsi per un'economia che generi un aumento dei redditi e delle possibilità per tutti>> queste le parole di Obama alla conferenza annuale sullo stato dell'Unione. Il problema centrale insito nel corso (comunque positivo) degli Stati Uniti è che, nonostante la forte ripresa, siano aumentate le disuguaglianze. Infatti i lavoratori riassorbiti dopo la crisi hanno assistito al calare del proprio salario a fronte di maggiori ore di lavoro, e la classe media ha continuato a impoverirsi senza essere partecipe della nuova rinascita a stelle e strisce. Grandi imprese, finanza e banca hanno invece continuato a veder aumentare i propri introiti a discapito dei cittadini e la forbice delle disuguaglianze ha continuato ad espandersi. Sempre maggiori moniti in tal senso arrivano dagli economisti, prima Krugman e Stiglitz e ora Piketty, economista francese che nella sua opera il Capitale nel ventunesimo secolo delinea una realtà oscura e ingiusta in cui sempre meno persone possiedono la ricchezza più ampia.

L'ultima analisi dell'Oxfam afferma che nel 2016 l'1% della popolazione mondiale sarà più ricco del restante 99%. Con scenari così disastrosi Barack Obama ha deciso in questi giorni di lanciare la sua risposta in nome della giustizia sociale. Il piano prevede introiti per 320 miliardi di dollari in 10 anni (circa 27 miliardi di euro l'anno) da utilizzare per finanziare scuola, sanità pubblica più sgravi e aiuti fiscali a famiglie e lavoratori. Si avrà: 1) l'aumento, dal 23 al 28 per cento, della tassa sui dividendi e <<capital gain>> di chi ha un reddito superiore al mezzo milione di dollari l'anno; 2) l'estensione del prelievo fiscale ai <<trust>> che oggi vengono usati dalle famiglie più facoltose per trasmettere la loro ricchezza agli eredi evitando ogni tributo; 3) un maggior prelievo su banche e finanziarie di grandi dimensioni (oltre 50 miliardi di dollari di patrimonio) concepito in modo da colpire chi fa un ricorso maggiore all'indebitamento. Con la manovra sarà reso gratuito il "Community College" per i primi 2 anni, saranno aumentati i crediti fiscali per le famiglie, aspettativa pagata per i padri e sarà aumentato di 3 mila dollari il contributo annuo erogato per ogni figlio fino all'età di 5 anni. "La crisi e' superata. L'America e' risorta dalla recessione". Barack Obama lo scandisce a chiare lettere nel suo sesto discorso sullo stato dell'Unione e annuncia: "E' ora di voltare pagina" e di "aprire un nuovo capitolo". Perché vinta la sfida più difficile, per il presidente americano e' necessario che tutti godano della ripresa, a partire dalla classe media che più ha sofferto negli ultimi anni. Difficilmente i Repubblicani lasceranno la strada spianata al Presidente e tenteranno di bloccare la manovra come l'anno precedente fecero, con successo, con l'aumento del salario minimo da 7 a 10 dollari l'ora. Il Presidente ha lanciato la sua sfida e non ha alcuna intenzione di indietreggiare. Non ha più ne il Congresso ne il Senato, ora Repubblicani, ma l'anatra zoppa, anziché rimanere in un angolo ad aspettare la fine, si rialza e con determinazione vuole agire.  Essendo il suo ultimo mandato, Obama non ha nulla da perdere ed è intenzionato a lasciare il suo segno nella storia.

Giorgio Mineo 

sabato 10 gennaio 2015

L'occidente cristiano e Charlie Hebdo: la retorica della "democrazia libera e civile" contro il nemico musulmano.


Questo è il cristianesimo



A Parigi sono morte 12 persone, che sono piante almeno da mezzo mondo. Cioè mezzo mondo si è stretto: è il momento dei lunghi pianti e dei battiti che "mancano" al cuore. Intendo: è incredibile come la tristezza possa far "saltare" al cuore (che è un muscolo costante nel suo lavoro), occasionalmente, un battito; cioè: è pazzesco come, invece del normale pompare sangue, a volte capiti che il cuore non ne faccia uno, di battito, e come questo causi affanno, perchè è mancata una razione di ossigeno, e come dopo inizi a pompare sangue più rapidamente, per recuperare dall'affanno.

Queste 12 persone saranno accanto al loro Dio, nella luce, se credevano; se non credevano, saranno dove credevano sarebbero finite dopo la morte; o magari credevano che dopo la morte non ci fosse nulla. Insomma: penso siano dove diavolo pensavano sarebbero andati dopo la morte, che sia il Paradiso, o il nulla, o altro.

Probabilmente, l'Occidente furioso, colpito da un altro attentato, lancerà una nuova crociata, l'ennesima, per riparare al torto subito, e per portare civiltà. Un attentato al mondo libero è stato definito da moltissimi, e sempre moltissimi vogliono che la nostra democrazia e la nostra libertà siano portate a loro. Ecco: i cittadini del mondo occidentale posseggono, grossomodo, un concetto comune di libertà e di democrazia. Attenzione: su questo punto, però, si potrebbe discutere, par vari motivi, parecchio tempo; e, sempre per vari motivi, questo non è il luogo ideale per discuterne. Comunque: è necessario affermare che, se moltissimi condividono quello che hanno scritto i giornali (cioè che questo è un attacco alla libertà ed alla democrazia), evidentemente, un'idea comune di democrazia e di libertà l'abbiamo. E sono proprio queste idee, che scommetto abbiamo tutti ben presenti dato che viviamo in Occidente, che vorremmo esportare. Esportare in paesi nei quali, sostengono i TG e le notizie di internet, democrazia e libertà non ci sono: non si può votare, non si ha libertà di parole e di stampa, le donne sono costrette ad utilizzare il burqa od il velo, o, per esempio, non possono studiare, ed infine, se si discostano dai precetti che vengono loro impartiti, vengono lapidate pubblicamente. Ecco: è innegabile che la nostra democrazia e la nostra libertà siano, oggettivamente, migliori.

Sostengo che tra il nostro mondo ed il loro ci sia differenza, dal livello di democrazia e libertà fino al modo di vivere. Ma alla fine mi chiedo: esiste così tanta differenza, come credono molti di noi, tra gli islamici estremisti e noi? Tra islamici estremisti che impongono il burqa o il velo alle donne e le lapidamo se si discostano dal volere degli uomini, e noi che ricattiamo sessualmente sul lavoro, molestiamo verbalmente e fisicamente, telefoniamo oscenamente, pediniamo la metà delle nostre donne (dati ISTAT)? E vi prego di considerare veri i dati ISTAT, come veri li considerate quando vi infarciscono di dati sull'economia. Non tutti fanno quello che l'ISTAT sostiene venga fatto sulle donne italiane, qualcuno potrebbe sostenere. Rispondo che non tutti gli islamici si macchiano di azioni del genere. Poi mi chiedo: esiste così tanta differenza tra loro che compiono attentati, considerati vili, e noi che, la guerra, invece, la facciamo "civilmente", poichè abbiamo un bell'esercito ordinato ed addestrato che porta pace e democrazia, quando è palese che tutti questi bravi leader, che ci guidano, mandano tutti questi bravi ragazzi a fare guerre, manco a difesa dei nostri confini, ma in paesi lontani, nelle vicende dei quali noi non centravamo niente? Ed è un sputo alla nostra intelligenza il fatto che questi nostri leader ci dicano che, oltre a portare democrazia e pace, queste guerre si fanno per prevenire il rischio di attentati, perchè è chiaro come la luce del sole, come un torrente alpino, che lì si va a combattere per i soldi del petrolio; poi: non è che gli estremisti islamici hanno cominciato a fare attentati arbitrariamente, ma hanno iniziato dopo che noi abbiamo fatto guerra a loro per motivi fittizi. Il fatto che abbiano iniziato dopo i nostri interventi nelle loro terre lo dicono i fatti storici. Quello che attua l'Islam estremo nei nostri confronti è la legge del taglione, quella del "vita per vita [...], occhio per occhio": i civili che noi abbiamo ucciso laggiù (per primi, è bene puntualizzare) in cambio di quelli che loro uccidono in Europa o America. E questa famosa citazione, questa dell'"occhio per occhio", non è nel Corano, ma nella Bibbia: questo è il cristianesimo, ritorto contro di noi: se qualcuno ti colpisce con un bastone, la tua vendetta dovrà cadere più forte del colpo del tuo nemico.

Sì, portiamo la nostra libertà e la nostra democrazia. Meglio delle loro? Sì. Ma mi chiedo ancora: è così tanta la differenza tra la loro democrazia e la nostra? Noi viviamo in democrazia nella misura in cui, circa una volta all'anno, andiamo a votare, cioè la democrazia si ferma a te che dai un voto una volta ogni tanto; poi, per carità, siamo liberi di scegliere i nostri candidati e di candidarci: davvero? Scegliamo noi quelle mille persone, che si riuniscono il Parlamento, così brave ed intelligenti? Del resto, hanno due lauree a testa, minimo: mica sono persone stupide come te; poi sono ottimi tecnici che di politica sanno tutto e che sanno come decidere al posto tuo. Scordavo: siamo liberi di partecipare alla vita politica, di riunirci: sì, se trovi il tempo tra gli impegni di ogni giorno, tra i quali: lavorare tutto il giorno, studiare tutto il giorno, far crescere i tuoi figli, sopravvivere. Quindi io mi chiedo: siamo, noi occidentali, davvero liberi? E viviamo davvero in democrazia?

Ed infine, buon Dio, io mi chiedo: è così tanta la differenza tra noi e loro? È incivile lapidare le donne, ma non lo è il fatto che la metà delle nostre abbia subito violenza. Loro sono gli incivili, e non noi, che ci ammazziamo a coltellate nelle famiglie. Quindi, ancora, buon Dio: cosa cambia tra noi e loro?

Cambia, forse, l'estetica. Nel senso: cambia come questi eventi risaltano ai nostri occhi. Perchè è diverso lapidare una donna in pubblico ed ucciderne una in una casa, che so, di Roma, lontano dagli occhi di tutti; è diverso un esercito addestrato ed ordinato da uno fatto di banditi islamici sporchi e brutti. L'occhio vuole la sua parte; ma non siamo così stupidi, capiamo che, in fondo, nella loro sostanza, sono la stessa cosa. Ecco: noi, casomai, riusciamo a mascherare ciò che compiamo con un velo esteticamente più bello. Questo è il Cristianesimo: nel senso che questo è l'impressione che mi dà. Ovviamente le impressioni valgono poco e non esiste, che io sappia, un collegamento concettuale tra il Cristianesimo ed il fatto che l'Occidente, prima fa guerre fittizie, e poi ne minaccia altre perchè il nemico s'è vendicato.

Dicevo: questo è il Cristianesimo. Tra l'altro, il Cristianesimo è il credere che sia giusto che il mondo si divida in ricchi e poveri; ma stiano tranquilli, i poveri: c'è la carità dei ricchi (che così aggiustano la loro coscienza), e poi gli ultimi saranno i primi, in Paradiso, ma che in Terra non fiatino e non si lamentino. Questo è il Cristianesimo dei Papi e di tanta gente, nel senso che è il cercare con la forza, qualsiasi tipo di forza, di far credere all'altro che la tua religione è la migliore, cioè: è il volere che tutto il mondo sia cristiano. Ma, grazie a Dio, ci sono tante religioni diverse. Questo è il Cristianesimo: è il ricco che fà la carità, non perchè è uguale al povero, ma perchè è implicitamente superiore al povero. In ultimo, questo è il Cristianesimo: è il relazionarsi con un altro popolo attraverso un esercito: è il considerare gli islamici, sia estremisti che non, implicitamente, inferiori: è infilarsi negli affari del Medio Oriente per i soldi del petrolio che arricchiscono i già pochi ricchi del pianeta, e facendolo mentendo: è il mettere questo velo di falsità sul nostro mondo non troppo diverso, nella sostanza, da quello islamico.
                         
              

                                                                                                                              Di Alberto Mannino

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