venerdì 5 luglio 2013

RECENSIONE LIBRI

 
QUADERNI DI SERAFINO GUBBIO OPERATORE
 
Disarmante: se mi si chiedesse di attribuire un epiteto a quest'opera, sicuramente direi che è un'opera che ti sconvolge, e non sarebbe una novità rimanere sgomenti dopo la lettura di uno scritto di Pirandello. Non è un caso che il termine "Pirandelliano" sia entrato nel vocabolario italiano con l'accezione di "contraddittorio" e "grottesco", infatti questi sono i 2 topoi, elementi ricorrenti, che soggiacciono alla trama e di cui si serve Pirandello per demistificare la realtà che ci circonda, in particolare le ipocrisie e l'aggregato di forme che caratterizzano noi stessi e le relazioni sociali.
Luigi PirandelloLa storia narra di un "operatore" che lavora per una casa di produzione cinematografica, incaricato di girare la manovella di una cinepresa per riprendere le scene, tuttavia questo lavoro alienante viene criticato aspramente da Pirandello che con uno stile espressionista (molto espressivo) ne denuncia le contraddizioni e le anomalie: Serafino arriverà a dire di sentirsi una "mano", perché in presenza della cinepresa si sente un mezzo, una cosa, un'appendice della macchina stessa che lo pone in una condizione di soggezione e sottomissione. L'uomo, che dovrebbe essere il padrone del suo mondo tecnologico, ne diviene lo schiavo, oppresso da una società che eleva la tecnologia a mezzo di cristallizzazione della vita, infatti Gubbio stesso dirà che la meccanizzazione della vita sociale ci ha reso delle forme rigide, delle maschere o, ancora meglio, degli individui che camuffano le loro emozioni dietro fittizie immagini di sé, talmente totalizzanti che alla fine ci si chiede quale sia la propria identità se l'idea che abbiamo di una persona varia in base al nostro stato d'animo o all'opinione altrui. Gubbio incarna anche il punto di vista dell'autore stesso che sottolinea la condizione dell'intellettuale (Gubbio infatti ha studiato lettere), sempre più emarginato ed estraneo alla società, nella quale trova collocazione solo come "operatore", come tecnico al servizio della tecnologia e del denaro. L'ampia critica che Pirandello rivolge alla tecnologia occupa la parte iniziale dell'opera: è messa in evidenza soprattutto la sua capacità di accelerare il tempo, modificando la percezione che noi abbiamo di esso, pertanto l'uomo moderno non ha più la possibilità di fermarsi e riflettere sulla morte, sulla vita o anche su se stesso, perché viene predisposto alla logica del progresso, dell' "impassibilità", dell'apparire, è continuamente sollecitato a non rielaborare le sue esperienze passate o a risolvere le sue problematiche esistenziali, perché è sempre distratto dalla velocità delle sue macchine, dalla forma, dall'ansia di soddisfare gli altri, senza mai mostrare le sue debolezze.
Il "silenzio di cosa", questa è la via che sceglie Gubbio: non riuscendo a barcamenarsi nella fitta rete di forme che lo condizionano, preferisce rimanere impassibile, non provare più alcuna forma di sentimento che possa scardinare il sistema di forme sul quale la società si fonda, infatti, dopo una serie di peripezie, fraintendimenti, incomprensioni e digressioni filosofiche sulla vita, Serafino arriva alla conclusione che è meglio votare la propria esistenza al silenzio, perché nulle sono le possibilità di comunicare, perciò ognuno di noi è cristallizzato entro forme che mutano continuamente a seconda dello stato d'animo di chi le costruisce, rendendo di fatto inattuabile una reciproca comprensione (in virtù anche dell'inaspettato dramma finale...).
Secondo Pirandello, noi ci costruiamo le nostre forme, moduliamo la materia, ciò che percepiamo e assimiliamo, secondo le nostre emozioni che attribuiscono un significato soggettivo alla realtà, proprio per questo motivo Serafino critica la tecnologia (la cinepresa), perché fissa la realtà e ci illude di poterla dominare, scattando una foto a noi stessi ci illudiamo di realizzare chi siamo, quando invece non ci accorgiamo che, nel momento in cui abbiamo dinanzi a noi la foto, è trascorso del tempo e noi siamo cambiati, perché la vita è un continuo divenire e quella foto ha solo immobilizzato un attimo effimero della nostra esistenza. Serafino prende atto della realtà: o continuiamo a illuderci di essere delle persone fisse con un'identità unitaria, pur essendo consapevoli di non esserlo, oppure ci "guardiamo vivere", preferendo condurre un'esistenza di alienati che tentano sempre di conoscersi, quindi di ingabbiarsi in forme rigide. "Conoscersi è morire", afferma Pirandello ne "La Carriola", nel momento in cui noi ci guadiamo indietro e tentiamo di capire chi siamo riferendoci al passato, abbiamo un'immagine di noi stessi che non esiste, che è morta, perché quella forma è ritratto di esperienze già avvenute.
I personaggi sono molto vicini alla nostra sensibilità, perché continuamente macerati da un contrasto interiore fra forma e vita, fra l'immagine che gli altri hanno di noi e che non vogliamo infrangere e le nostre esigenze immediate e in continuo mutamento e contraddizione con la forma che gli altri ci affibbiano. Serafino è innamorato di Luisetta, ma non riesce a modificare l'immagine che lei si rappresenta di lui, ovvero di un semplice "operatore", povero e sottoposto a lei nella gerarchia sociale. La Nestoroff è costantemente preoccupata di non incrinare l'immagine che i suoi ammiratori hanno in mente di lei, così da evitare di mettere in mostra le sue debolezze e sofferenze e poter continuare a sembrare una donna fredda e impossibile.
Gubbio si sente sempre più una cosa. Il suo graduale processo di reificazione, viene chiamato "Si gira" come se non esistesse, è marcato dalla ripetitività del suo lavoro alienante, sempre uguale e così monotono che ci sembra così vicino alle odierne professioni impiegatizie o alle "catene di montaggio", in cui gli operai devono riprodurre sempre gli stessi movimenti, ogni giorno e senza possibilità di realizzarsi come esseri umani dotati di creatività e libertà.


Ugo Giarratano

 
 
 


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