venerdì 26 aprile 2013

Il futuro del PD

Ecco come Renzi vuole scalare il partito

Fra le ipotesi c’è anche quella di portare alla guida del Pd non il  sindaco, ma una figura a lui gradita.

Ascolta quel che ti dice la zia». È da qualche giorno ormai, anche grazie alla comune frequentazione parlamentare, che Rosy Bindi si intrattiene sempre più spesso con Simona Bonafè, la giovanissima deputata che fa da front office televisivo per i renziani. Segno che, se anche per la «zia» Bindi alcuni steccati nei confronti del mondo renziano sono caduti, allora per davvero il clima nel Pd per il sindaco fiorentino è parecchio mutato. Da pericolosa minaccia anti-partito a risorsa quasi indispensabile (tanto da essere anche candidabile a Palazzo Chigi) il passaggio è stato sì breve, ma certo non indolore. Basti pensare che a un certo punto della scorsa settimana, quando Pd e Pdl trovavano l’intesa su Marini, cioè proprio sul nome a cui Renzi aveva detto no (assieme a quello di Anna Finocchiaro), il sindaco s’è davvero sentito con un piede fuori dal partito. Poi è successo che il Pd s’è sfarinato, sfiorando pericolosamente il suicidio con l’affossamento di Prodi. Di fronte al baratro ecco che è stato quasi naturale aggrapparsi a Renzi. Non solo simbolicamente: a molti non è sfuggito l’abbraccio che gli ha riservato Alessandra Moretti. 

E in effetti la sua possibile ascesa a Palazzo Chigi in pratica era sostenuta da tutti gli ex Ds (da Fassino a Orfini, ai giovani dalemiani, a Veltroni), da gran parte degli ex Margherita (esclusi imariniani) e non osteggiata dai bersaniani e neppure dallo stesso Letta (con cui Renzi aveva mangiato un panino prima della direzione). Poi la chiamata dal Colle non c’è stata, forse per un veto berlusconiano (smentito dal Pdl). 

Però adesso quel bonus guadagnato nel partito Renzi ha intenzione di giocarselo. Per un sondaggio del Tg3 il 67% degli intervistati lo vorrebbe segretario (Barca è al 13%). Anche perché se certo non si può parlare di figliol prodigo, sicuramente anche il sindaco di Firenze negli ultimi tempi un po’ di maggiore attenzione alla vita interna del Pd (a quelle che definiva stanche liturgie) l’ha messa. E ora, col nascente governo Letta, gli toccherà fare il passo definitivo e giocare in primafila la partita per la segreteria. Sempre che ovviamente non cambi lo statuto e come chiede qualcuno (da Barca al presidente della Toscana, Rossi) non si scindano le figure di segretario e candidato premier. Una corsa che Renzi però deve ancora decidere se fare direttamente o meno. Perché fra le ipotesi da prendere in considerazione c’è anche quella di portare alla guida del Pd non il sindaco, ma una figura a lui gradita, soprattutto se sarà ipotizzabile che le elezioni si terranno fra un paio d’anni. In questo caso Renzi si ricandiderà a sindaco di Firenze (si vota il prossimo anno), un ruolo che gli garantisce, come dimostrato in questi anni, una forte visibilità. Certo tutto dipenderà dalla forza che avrà il governo Letta, da quanto durerà e da quanto saprà fare. Adesempio per il senatore renziano Andrea Marcucci dovrà avere tempo e scopi limitati: rispondere all’emergenza sociale e cambiare la legge elettorale. Poi di nuovo al voto. Renzi a Letta ha mandato via twitter un abbraccio e un “in bocca a lupo”. Parole non formali visto che poi ha passato la giornata al telefono per aiutare il suo governo a decollare. Dopo la trasferta romana, ieri prima di pranzo, Renzi è tornato a Firenze. Ha fatto sapere che non sarebbe andato al festival del giornalismo a Perugia e s’è chiuso in Palazzo Vecchio.

Il messaggio è chiaro: sto facendo il sindaco, tutto il resto ora non mi interessa, incarichi ministeriali compresi. Che non vuol dire però che nel governo Letta non ci saranno ministri renziani: il presidente Anci Delrio e Richetti (come sottosegretario) sono in pole. Oggi ad esempio il sindaco celebrerà il 25 Aprile e poi andrà a inaugurare i lavori al giardino dell’orticultura. Maper il futuro, più o menio prossimo, per Renzi sarà comunque indispensabile allargare la propria sfera di influenza nel Pd. E in questa direzione ha già cominciato a muoversi e a fare muovere i suoi uomini. E infatti Dario Nardella, già suo vicesindaco e oggi deputato, spiega che c’è da rianimare un Pd con «l’elettroencefalogramma piatto ». E che la cura sta nel «ricambio del gruppo dirigente» e nel recupero della «vocazione maggioritaria» con una leadership forte (ogni riferimento a Renzi è voluto) mettendo «nel cassetto» l’dea «di un partito di federazioni, di correnti e di potentati».

Il 4 maggio ci sarà l’assemblea nazionale che dovrà convocare il congresso e dare una guida temporanea al partito. Una gestione collegiale in cui saranno presenti anche i renziani. Come uomini del sindaco ci saranno anche fra chi dovrà scrivere il regolamento congressuale e avranno il compito di allargare il più possibile la partecipazione dei cittadini. Il modello sono le primarie di Veltroni e di Bersani-Franceschini, non certo quelle dello scorso novembre. Perché il Pd a firma Renzi se ci sarà, avrà un «senso» assai diverso da quello che Bersani ha tentato di dargli da quattro anni a questa parte.

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